“La lunga notte” per fortuna è finita. Galeazzo Ciano non era un gagà cretino e il Re non era un imbecille…
La lunga notte è finita. Nel senso che la fiction sulla caduta del duce è andata in onda e non ci pensiamo più. D’altra parte se Antonio Scurati è riuscito a far passare per storia un romanzo fitto di errori come M. Il figlio del secolo, perché prendersela tanto con la fiction prodotta da Luca Barbareschi con Eliseo Entertainment e Rai Fiction su soggetto firmato da Franco Bernini?
Però, c’è un però. Lasciamo perdere regia (Giacomo Campiotti), attori, ambientazione, l’automobile che nel 1943 non esisteva, eccetera eccetera… La questione è un’altra. È lecito domandarsi di chi sia stata, se c’è stata, la consulenza storica per la stesura della sceneggiatura. Perché sui fatti del 25 luglio si è tanto scritto e detto, nel corso dei decenni. E nessuno, dico nessuno storico di valore, ha potuto rivendicare di aver scoperto la vera verità. Non per cattiva volontà o incompetenza. Semplicemente perché la ricostruzione esatta di quei giorni è stata impedita, finora, dalla mancanza di documenti e testimonianze attendibili. Certi sono il voto del Gran Consiglio, l’arresto di Mussolini, la mancata reazione della Milizia, la nomina di Badoglio, la delusione dei gerarchi, la guerra che continua. Il resto è nebbia.
Per fare un esempio, nel 1946, Domenico Bartoli, nel pubblicare la biografia Vittorio Emanuele III, trattando dell’incontro a Villa Savoia tra il Re e Mussolini, ammise che “il colloquio è breve, ma non sarà mai possibile ricostruirlo nei termini esatti”. Aveva ragione. Perché non erano presenti testimoni, e il generale Puntoni si limitò a origliare dietro la porta. Un Re che, peraltro, nella fiction, sembra fino all’ultimo un imbecille smidollato, che si arrabbia con il principe Umberto per l’attivismo di Maria José. Insomma, un Re contrario alla svolta, pauroso, che il giorno dopo fa però arrestare Mussolini, spinto dal ministro della Real Casa Acquarone.
Renzo De Felice fu perfettamente consapevole che la sua ricostruzione era per molti versi ipotetica. Si basava sui documenti non esaustivi, su una pubblicistica priva di fonti, e sulle testimonianze di persone troppo coinvolte negli eventi, ansiose di difendere ciascuno il proprio ruolo e la propria immagine, a cominciare da Dino Grandi. Decenni dopo, per fare un altro esempio, lo ammette Emilio Gentile nel suo 25 luglio 1943: molti interrogativi restano senza risposta. Nessuno, ripeto, nessuno, è stato finora in grado di fare meglio. Aver scoperto che, quella notte, lo stenografo di turno era stato allontanato, non chiarisce nulla sul dibattito nel Gran Consiglio. È solo una curiosità.
Si dirà: ma tanto è solo una fiction, non un documentario, o docu-film, come si chiamano oggi. Vero. Ma i telespettatori possono legittimamente pensare che il suo contenuto corrisponda alla verità. Il che fattualmente non è. Sarebbe stato necessario, almeno, non commettere errori madornali, sia nel singolo episodio, sia nel tratteggiare la personalità e le speranze dei protagonisti.
Per dirne una, di Galeazzo Ciano si può pensare tutto il male possibile, per un verso o per l’altro, ma non farlo passare come un gagà cretino. Non lo era. Sarebbe stato necessario per onestà e per rispetto di chi guarda, fiducioso di imparare qualcosa. Qualcosa che riguarda una svolta cruciale nella storia italiana, cioè il tracollo del regime fascista. Non è un dettaglio. Senza quel 25 luglio tutto sarebbe probabilmente andato in modo diverso, con varie opzioni. In ogni caso la folle guerra italiana a fianco di Hitler era perduta.
Per evitarli, gli errori, per evitare l’effetto fumettone, compresi i ruoli della Petacci e di Umberto, con un Mussolini in grado di ricattarlo grazie ai rapporti segreti sulle sue presunte inclinazioni sessuali, bastava farsi aiutare da uno storico competente in materia. Ce ne sono. E non pochi. O almeno leggere un libro. E capirlo.
articolo tratto dal blog gianniscipionerossi.it