L’editoriale. La “sindrome Sardegna” colpisce ancora ma la vera sfida sono le Europee
La “sindrome Sardegna” ha colpito ancora. Come avviene puntualmente dal 1999 da queste parti – prima tornata con l’elezione diretta del presidente di Regione – giunta e coalizione uscenti non sono stati confermati dagli elettori. Il risultato, dopo un testa a testa all’ultima scheda, stavolta ha premiato Alessandra Todde, candidata grillina del (mezzo) campo largo che ha significativamente preferito chiudere la sua campagna elettorale senza l’abbraccio di Conte e Schlein sul palco. Ciò a testimoniare quanto la sfida per la Sardegna, per la vincitrice e a prescindere dalla sua farneticante uscita «sull’inizio della Resistenza», non abbia avuto un momento simbolico dal respiro nazionale. Tradotto: i “macigni” politici, su quel campo, restano difficilissimi da estirpare.
Dall’altra parte a pesare di più, come hanno ammesso i luogotenenti del centrodestra, è stato il giudizio non sufficiente dei sardi sui cinque anni di governo regionale dell’uscente Christian Solinas. Fratelli d’Italia, insieme al grosso degli alleati, ha cercato di dare uno scossone con Paolo Truzzu. Non è stato sufficiente: l’obiettivo è fallito di un soffio. Si capirà, nelle prossime ore, se quanto abbiano influito le schermaglie all’interno della coalizione o, più probabile, la mini-strategia della tensione degli ultimi giorni ordita dalla sinistra nel dibattito pubblico.
Detto ciò nessun dramma e, ovviamente, nessuna ripercussione sul cammino del governo. Il voto in Sardegna, infatti, non è mai stato un test nazionale: non poteva esserlo per dimensioni, per affluenza e per la natura specifica – storicamente inquieta – del suo elettorato. Ma se proprio lo si volesse ritenere tale occorrerebbe allora considerare che fra pochi giorni si voterà in Abruzzo (dove l’esperienza di governo di centrodestra è assai più solida) e poi in Basilicata e Piemonte dove del campo largo non si vede nemmeno un lembo. Aggiungiamo, poi, che il destra-centro ha stravinto in tutte le tornate principali nel 2023: in Lombardia, in Veneto, nel Lazio, nel Molise, in Friuli Venezia-Giulia. E ha conquistato, nel cappotto effettuato ai danni della sinistra nei principali comuni, un fortino “rosso” considerato inespugnabile come Ancona. Altro che «squillo di tromba» in Sardegna dunque, come si sono affrettati a fare dal Nazareno e dal M5S: bandierina piazzata (la prima in una Regione nella storia M5s, un “record” per Elly Schlein di cui la minoranza dem avrebbe fatto di certo a meno…), ma spostandosi dalle meravigliose coste dell’isola si consiglia ai leader giallorossi una dose non omeopatica di realismo.
Parliamoci chiaramente. Al netto del filotto dei prossimi test regionali, la prova di metà mandato sarà quella di giugno per il rinnovo del Parlamento di Bruxelles: è lì che i partiti di maggioranza, e con loro il governo e Giorgia Meloni, si giocheranno la vera partita. Sfida in vista della quale ieri a Bruxelles è stato fissato un ulteriore, importantissimo, tassello “italiano” dalla premier e dal ministro Lollobrigida a favore delle battaglie degli agricoltori: l’apertura della Commissione alla revisione della Pac. Un risultato che fa scopa con l’evidente condizionamento programmatico delle tesi dei Conservatori sul Ppe: basta confrontare le parole di Ursula von der Leyen sul Green Deal e sulla competitività dell’industria europea per capire come in ogni caso l’agenda della prossima Commissione sarà orientata a destra.
Cosa si può trarre a questo punto dall’incidente di percorso avvenuto in Sardegna? Un’indicazione su tutte, a cui si può associare il dibattito “forzato” sul terzo mandato: le tensioni, seppur in parte fisiologiche, non piacciono all’elettorato di centrodestra. La risposta, non a caso, è arrivata a scrutini ancora in corso: Giorgia Meloni ha voluto fare il punto sull’azione del governo con i due alleati. Un segnale chiaro: la mobilitazione non è “fra” le parti in causa ma sulla stagione riformista e le risposte sociali da dare agli italiani. Se da una parte, insomma, le Europee si candidano ad essere nient’altro che la stazione della resa dei conti finale fra Conte e Schlein per la leadership, dall’altra, per Fdi, Lega e FI, non possono che rappresentare – al contrario – l’architrave dell’impalcatura su cui definire i contorni politici di una nuova Europa a sostegno dei suoi popoli. Argomento decisamente più intrigante (e sentito dall’opinione pubblica) per cui stringersi a coorte.