Dalle occupazioni ai bavagli per tutti: questo è il dopo-Roccella. La sinistra non volle condannare e ha aperto la porta all’intolleranza

16 Mar 2024 16:23 - di Annalisa Terranova
bavagli sinistra

Chi non ricorda il Salone del Libro di Torino dove fu impedito a Eugenia Roccella di presentare il suo libro? Non bastò in quel caso il rimbrotto di Sergio Mattarella (“la cultura è confronto”) per indurre la sinistra a una doverosa condanna dell’episodio. Che non degenerò perché Roccella non volle che la polizia intervenisse. Ebbene i salotti progressisti persero l’occasione, non compresero che quella nuova forma di contestazione (occupare uno spazio riservato ad altri) si sarebbe rivelata un boomerang che oggi ha colpito giornalisti che con la destra nulla hanno a che fare come Parenzo e il direttore di Repubblica Molinari. 

Schlein disse che il governo aveva problemi col dissenso

Legittimato il metodo, il bavaglio è in agguato per tutti. Elly Schlein all’epoca commentò l’accaduto con una sorprendente leggerezza. “È surreale il problema che ha questo governo e questa maggioranza con ogni forma di dissenso”. E ancora: “Io non so come si chiami una forma di governo che attacca duramente le opposizioni, gli intellettuali e il dissenso: quanto meno mi sembra autoritaria”. Era il maggio 2023.

Capezzone subì una contestazione simile a quella di Molinari e Parenzo

Ma prima ancora c’era stata una clamorosa contestazione al giornalista Daniele Capezzone all’Università La Sapienza che poté fare il suo intervento a un convegno organizzato da Azione Universitaria solo perché scortato e protetto dalla polizia. La sinistra anche in quel caso si schierò con i contestatori. Ilaria Cucchi utilizzò toni addirittura lirici: “I nostri ragazzi alla Sapienza sono stati affrontati come terroristi perché credevano ancora di avere il diritto di protestare in modo pacifico”. Dilagò lo schema polizia-cattiva contro studenti angelicati che abbiamo visto in azione anche per le manganellate di Pisa. Ma assieme a questo concetto banalmente propagandistico si faceva strada anche un’altra pericolosa equazione: impedire a uno/una di parlare è protesta pacifica, diritto al dissenso, contestazione dei deboli contro il potere che è sempre più forte.

Chi ha inventato il metodo di contestazione oltranzista

Legittimato il metodo, il dissenso ha preso a dilagare nelle sue forme più oltranziste. Tutto è dissenso e tutto è legittimo: impedire a un giornalista di esercitare il suo diritto di opinione, sfondare un cordone della polizia, improvvisare un blocco stradale, interrompere con cori e slogan una celebrazione. Era ingenuo pensare che tutto ciò avrebbe coinvolto solo esponenti di destra e che alla fine non avrebbe lambito anche quell’area che ha reagito con coccole e buffetti alle nuove forme di contestazione.

Il metodo dei corpi che diventano un “noi” collettivo che occupa piazze, atenei, musei e altri luoghi del pubblico (cioè di tutti) ha una sua teorica, la filosofa Judith  Butler, la stessa da cui hanno origine le teorie gender finalizzate a superare il sesso biologico come paradigma identificante. Nel suo libro pubblicato in Italia da Nottetempo L’alleanza dei corpi  Butler sposta dunque la sua attenzione dalle discusse teorie gender al tema delle “azioni plurali” compiute dai gruppi che interrogano/contestano il potere costituito occupando uno spazio pubblico.

Il pensiero di Judith Butler sui corpi che diventano “noi”

Il pensiero della Butler si rivolge a movimenti come Occupy o come le manifestazioni delle primavere arabe (stagione ormai totalmente “demitizzata”), ma soprattutto fonda una sorta di teoria sull’appropriazione dello spazio pubblico come forma di “resistenza” (ciò che è avvenuto per esempio in Romania contro le nuove norme salvacorrotti o in America dopo l’elezione di Donald Trump). Ciò non comporta obbligatoriamente il fatto che queste “alleanze dei corpi” siano più democratiche delle istituzioni che intendono combattere. A interessare è la loro modalità, più che la loro legittimità o valenza etica.

La contestazione deve farsi spettacolo

Innanzitutto, perché si va in piazza? Per contestare, afferma Judith Butler, la morale neoliberista secondo la quale ciascuno ha il dovere di provvedere alla propria sopravvivenza e autosufficienza economica. Il non sentirsi garantito da questa “verità”, il sentirsi “precario” in questo caos di conflitti socio-economici, spinge gli individui a riunirsi pubblicamente. Già questo atto di per sé, anche senza il ricorso alla parola, cioè alla dialettica, fonda una rappresentazione politica alternativa che ha bisogno di farsi “spettacolo”, cioè necessita dell’attenzione dei media, di un pubblico che riprende la scena con gli smartphone, e persino delle forze di polizia che reprimono questa fetta di precariato sociale.

Non è solo un fenomeno di ordine pubblico

Tutte condizioni indispensabili a far sì che nell’immaginario collettivo si trovi un posto per l’apparizione di questa forma di “azione plurale”. È ciò che Judith Butler definisce come «attività di autocostituzione della sfera pubblica». C’è bisogno del video, c’è bisogno della carica repressiva, c’è bisogno del dibattito social. C’è bisogno della performance. Uno spettacolo che si incarna in corpi che diventano intermediari tra popolo e istituzioni. Queste forme di protesta saranno sempre più frequenti e trattarle solo come fenomeno di ordine pubblico è assolutamente troppo poco.

La politica deve prendere posizione senza manicheismi e decidere se queste azioni plurali che ledono i diritti altrui (diritto alla mobilità, diritto di parola, diritto di riunirsi pacificamente senza subire azioni di disturbo) sono da condannare o da trattare con indulgenza. Non è mai troppo tardi. Il caso Roccella non l’hanno capito ma perseverare ora nell’errore sarebbe imperdonabile.

 

 

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