Dossier energia. La transizione ecologica? È una grande questione industriale (e nazionale)
La transizione energetica è già in atto da almeno un ventennio e a ritmi crescenti, spinta certamente da interventi di supporto politico-ambientale ma sempre più da motivi economici: si pensi ad esempio alle rinnovabili per la produzione di energia e alle nuove tecnologie per i veicoli elettrici. Gli scenari di riferimento prevedono per il prossimo futuro una penetrazione delle fonti decarbonizzate sul mercato elettrico mondiale tra l’80% ed il 100%, dall’attuale circa 20%. Una vera e propria rivoluzione industriale, più che una transizione energetica, con un profondo e radicale cambiamento dei mezzi di produzione e dei modelli di consumo; una rivoluzione che vede in prima linea quelle forze industriali capaci di governare il cambiamento, capaci quindi di conquistare nuove materie prime – litio, cobalto, terre rare – e di sviluppare innovazioni e tecnologie, con l’obiettivo di dominare processi e mercati.
È dunque di grande importanza strategica la ricerca dell’equilibrio tra la transizione energetica e la tutela nazionale delle catene del valore, per non assistere passivamente alla possibile sostituzione dalla dipendenza per le fonti fossili, e dai Paesi che ne detengono i giacimenti, alla dipendenza dei sistemi e delle componenti per le rinnovabili, e dai Paesi che ne detengono le tecnologie e le materie prime.
In questo turbolento e ipercompetitivo scenario di assestamento della mappa del potere sull’energia del mondo, le “Materie Prime Critiche” costituiscono una questione centrale nella prospettiva dell’autonomia energetica e industriale italiana e europea, ancor più che per la lotta al cambiamento climatico. In questo turbolento scenario emerge l’enorme importanza dei diversi minerali – litio, nickel cobalto, rame, grafite, terre rare, tutti in crescita a doppia cifra – necessari per soddisfare l’orientamento green che sta guidando le scelte dell’Europa e più in generale dell’Occidente. La concentrazione della produzione delle materie prime critiche e dei relativi flussi commerciali di fornitura è un fattore di criticità strategica, che influenzerà nei prossimi anni le scelte dell’Europa verso la neutralità climatica e soprattutto l’indipendenza energetica.
La transizione energetica è Made in China
In questo scenario, il controllo delle materie prime, delle tecnologie e dei sistemi per la produzione di energia rinnovabile e di auto elettriche diviene sempre più un fattore chiave strategico per la leadership del potere industriale a livello globale. E ad oggi la transizione energetica è decisamente a guida cinese. Oggi la Cina – attraverso una politica industriale di lungo termine per il controllo della logistica e della raffinazione delle materie prime, e per la produzione integrata di batterie, pannelli e auto elettriche – è il più grande fornitore globale di materie prime critiche, contribuendo alla fornitura del 66% del totale e detenendo il primato su gran parte dei minerali strategici. Nella filiera elettrica, se consideriamo il litio, il cobalto e le altre materie prime utili per la transizione energetica, la Cina ha prima conquistato la leadership contrattuale nelle principali aree minerarie, dall’Australia, al Sud America e all’Africa, per poi investire sulla tecnologia e sulla capacità di raffinazione e trattamento, e costruire così la leadership chimica, con Sinochem Holdings; per poi conquistare la leadership elettrica con Catl (leader mondiale delle batterie) e automobilistica, con Byd (entrata nei primi sei mesi del 2023 tra i primi dieci produttori di automobili elettriche al mondo, superando marchi come Mercedes-Benz e BMW ) . Da notare poi che nel 2022, la maggior parte delle automobili dell’azienda di Elon Musk sono state prodotte a Shanghai.
Il sistema industriale cinese detiene attualmente una produzione di anodi di litio pari all’85% della produzione mondiale, cioè quasi un monopolio. Di conseguenza, le aziende cinesi hanno un potere quasi assoluto anche nella produzione e commercializzazione di batterie elettriche agli ioni di litio, immettendo sul mercato tre quarti dell’intera offerta globale. Quindi, e sempre di conseguenza, le automobili elettriche prodotte nella Repubblica Popolare Cinese rappresentano circa il 53% della produzione mondiale. Sembra quasi che il potere industriale occidentale abbia in questi anni preferito delegare, per grave distrazione, proprio alla Repubblica Popolare Cinese i processi manufatturieri a valle dell’estrazione e raffinazione dei minerali, forse anche perché paradossalmente troppo poco green rispetto ai stringenti parametri ambientali della legislazione europea . In ogni caso oggi le chiavi strategiche per il dominio industriale della transizione energetica sono cinesi.
L’Ira americana e il ritorno del made in Usa
La grande transizione energetica pone dunque evidentemente in primo piano la tutela delle catene di approvvigionamento, come fattore determinante per la sicurezza nazionale; come sembra sappiano molto bene negli Stati Uniti, dove la dipendenza dalle forniture estere rappresenta una minaccia, proveniente soprattutto dalla Cina, al ruolo di leadership economica, tecnologica e militare. La reazione americana, pur tardiva, è da subito apparsa molto ferma. L’Inflation Reduction Act, dell’estate 2022, con l’obiettivo di ricostruire la capacità di produzione e innovazione, definisce da un lato i perimetri della competizione tra Cina e Stati Uniti nella transizione energetica, per contenere l’ascesa cinese nelle filiere industriali delle energie pulite; e dall’altro intende affermare la posizione dominante dell’industria verde americana nei confronti di tutti i competitor globali, anche del partner europeo .
Dunque L’Ira è la risposta americana a decenni di delocalizzazione industriale e allo strapotere cinese nello scenario della transizione energetica globale: dotata di un budget di 738 miliardi di dollari, dei quali 391 miliardi saranno spesi per l’energia e il cambiamento climatico, mira a stimolare la domanda e soprattutto a rilanciare il sistema industriale nel territorio americano . Ad esempio ogni famiglia americana potrà accedere a 7.500 dollari per l’acquisto di una nuova auto elettrica, ma l’auto dovrà essere made in USA, o comunque assemblate nel territorio americano. Le batterie, elemento strategico delle macchine elettriche, dovranno essere prodotte o assemblate in Nord America, con una quota progressivamente crescente dal 50% del 2023 al 100% del 2029. L’Ira americana chiarisce senza fraintendimenti la direzione statunitense per la riconquista del potere industriale mondiale nell’era della transizione ecologica: riportare l’industria al centro del territorio americano, controllare la catena del valore della green economy, attrarre investimenti esteri, sviluppare adeguate capacità tecnologiche e produttive nazionali.
L’Europa tra sogno verde e risveglio industriale
In questo scenario di vera e propria guerra economica per la conquista delle catene del valore delle energie rinnovabili, l’Unione Europea, partendo da una situazione di atavica dipendenza energetica, sceglie di posizionarsi tramite il Green Deal da protagonista più culturale che industriale della transizione energetica. L’Unione Europea ha sviluppato in questi anni grandi capacità di microregolazione normativa e senza dubbio ottenuto il primato dello standard ambientale più articolato e rigido del mondo: dal plastic-free al suicida bando delle automobili a combustione, sino alla casa green. Ma mentre a Bruxelles si discuteva delle tonalità del verde, nel mondo, e soprattutto in Cina, si conquistavano risultati industriali impressionanti, tanto per le energie rinnovabili quanto per la mobilità elettrica. Mentre in Europa si passava da un tavolo tecnico a un altro, sempre alla ricerca del compromesso tra interessi divergenti, negli Stati Uniti si adottava con rapidità una legge a forti tinte protezionistiche, per tutelare l’industria e il lavoro nazionale. Mentre l’Unione Europea, in piena crisi energetica, redigeva il complesso impianto del Green Deal con la sua potente struttura burocratica, la Cina viaggiava velocissima, tanto nella conquista delle miniere mondiali della materie prime, quanto nelle produzione di tecnologie e componenti delle diverse filiere dell’energia e della mobilità elettrica, senza per questo ridurre l’impegno nel nucleare. E gli Stati Uniti continuavano a investire nella conquista di miniere di terre rare e cobalto, nella riconquista industriale e nella protezione della supply chain nazionale, e nella costante produzione di eco-innovazioni; senza per questo ridurre l’impegno, anzi rafforzandolo, nel gas, nel petrolio e nel nucleare. L’Europa che ha sviluppato negli anni una leadership significativa soprattutto nello sviluppo di un’articolata strategia legislativa contro il cambiamento climatico, rischia di posizionarsi come ricco mercato di sbocco dei proprietari delle materie prime e delle tecnologie – batterie, pale eoliche, panelli fotovoltaici, inverter, auto elettriche – della transizione energetica.
Il grande ritorno della cultura e della politica industriale è la via prioritaria per l’indipendenza energetica europea: occorre tramutare in pratiche industriali quanto politicamente annunciato negli ultimi anni. Tornare a produrre, e in tempi rapidi, puntando su nuove tecnologie e materie prime per la transizione energetica competitive con quelle dominanti (non c’è solo il litio, che comunque non è infinito ed è evidentemente di dominio cinese). L’assetto del sistema energetico globale non è statico, a fronte di criticità che lasciano comunque spazio di manovra per scelte strategiche di lungo periodo per la rincorsa, ancora aperta, a nuove materie prime e innovative soluzioni industriali. La questione energetica è certamente determinante per la soluzione del problema ambientale, ma la direzione strategica non può che dipendere da una scelta di politica industriale, per una rinascita economica italiana ed europea ed un posizionamento indipendente nello scenario energetico mondiale.
L’Italia può e deve giocare un ruolo da protagonista nel sistema energetico mondiale, ruolo che in ogni caso ci compete per la nostra storica vocazione di innovatori: in questo senso il rafforzamento del nostro ruolo nel mediterraneo nell’ambito del Piano Mattei ci sembra un grande ed importante passo in questa direzione. Non mancano naturalmente le competenze, non mancano le idee, non mancano le opportunità. Non resta che esercitare con coraggio la nostra volontà e la nostra tenacia.
L’autore:
Docente di economia dell’ambiente e del territorio, Università Guglielmo Marconi;
Membro del comitato scientifico del Pomos-Università La Sapienza;
Socio e membro del comitato scientifico Fondazione Sviluppo Sostenibile