Intelligenza artificiale: attrezzarsi (per non subire) la sfida. Burocrazia? No, investimenti…
Al volgere del secolo, prima che il mondo piombasse nei lampi e tra le fiamme delle due guerre mondiali, forse proprio per la tensione elettrica che pervadeva nel fondo la società, le istituzioni vennero percorse dalla necessità di darsi sicurezza: come ricorda Natalino Irti, citando Stefan Zweig, si inaugurò l’età della sicurezza, che nel campo del diritto si tradusse nel confortevole e marmoreo utero dei codici. Apparve una buona idea, certamente, che l’universo-mondo potesse essere ridotto a strumenti di risoluzione dei conflitti, di sanzione e di punizione, cercando di inscatolare l’animo umano e la relazionalità stessa tra le volute sinuose di commi e articoli. La tentazione di darsi regole, codici, testi unici, rimane, in Europa e in Italia, ineludibile. Questione antropologica, verrebbe da sostenere.
Nonostante la radicale trasformazione della società e del mondo, nonostante il deflagrare di schumpeteriane forze innervate dalla distruzione creatrice, nonostante la fluidità della globalizzazione e la bianca accelerazione del digitale, l’idea di cesellare una legge, un decreto, una circolare, di incasellare e fermare, solo virtualmente, il caos della tecnologia avanzata rimane forte. Una tentazione che nasconde però una illusione. Per questo, mentre l’ultimo lascito di Henry Kissinger è proprio un testo, “L’era dell’Intelligenza Artificiale”, scritto con Eric Schmidt, ex CEO di Google, e Daniel Huttenlocher, a tradire una immensa preoccupazione per un mondo percorso dai fremiti della congiunzione tra Intelligenza artificiale, appetiti governativi e privati affetti ormai da gigantismo, mentre gli USA e la Cina si sfidano in maniera epocale per mole di investimenti sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico, suscita quasi tenerezza, prima, e rabbia poi, veder le foto degli euro-burocrati festanti per aver approvato il primo testo normativo di regolazione dell’intelligenza artificiale al mondo.
Non più tardi dell’ottobre 2023, il Ministro delle finanze francese ha ammonito che mentre gli USA hanno investito circa 50 miliardi di dollari nel campo della intelligenza artificiale e la Cina 10, l’intera Unione Europea è ferma a 5. Per questo, l’ennesimo testo normativo, sbandierato con vanto da primato internazionale, dovrebbe suscitare vaste perplessità. Non nel merito, anche perché quel testo andrà incontro a lunga e dolorosa opera di implementazione, ma proprio per l’idea che ne è a fondamento. Mentre il mondo comprende che si è in presenza di un epocale rivolgimento, non poi così dissimile dalla grande apertura delle rotte nautiche registrata tra 1500 e 1600, con le Corone che saggiamente compresero di dover finanziare gli schmittiani merchant-adventurers, per sfruttarne la adattività, la capacità di innovazione e la avversione al rischio, noi, noi Unione Europea, siamo ancora fermi al definire cartolari e metaforici semafori codicistici per intelligenze artificiali.
Guerra invisibile
Alessandro Aresu, nel suo “Il dominio nel XXI secolo”, lo ha scritto chiaramente. Siamo in guerra. Una guerra che si combatte con e sulla tecnologia. Sviluppo, innovazione, ricerca, sono divenuti i terreni su cui le grandi potenze, ciò che Christopher Coker ha definito gli “Stati-civiltà”, esercitano e misurano le rispettive sfere di influenza, la propria potenza e sovente usano, in chiara ottica tecno-vestfaliana, per mettere in questione gli spazi di sovranità altrui. Da un lato gli Usa, dall’altro la Cina, o, volendo estendere l’angolazione prospettica dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia putiniana, ciò che la analista geopolitica Velina Tchakarova da anni definisce ‘The Dragonbear’. E l’Unione Europea? Nel mezzo. Più che a far da cuscinetto, però il rischio è che ne esca con le ossa spezzate.
Basterebbe ricordare come oltre il grandemente citato e noto piano della Via della Seta, i cinesi abbiano veicolato, sovente in combinato con quello, la strategia ‘Made in China 2025’, tutta devoluta allo sviluppo radicale e accelerato dell’intelligenza artificiale e del 5G, senza dimenticare per via l’altro fronte parimenti caldo e su cui meno ci si concentra, l’apertura delle rotte spaziali, la quale segnerà a tutti gli effetti un parallelo sostanziale con quanto avvenuto tra XVI e XVII secolo. Appare quindi inquietante dover rilevare come mentre i giganti del mondo, tanto pubblici quanto privati, vanno espandendo o consolidando la loro ricerca e la loro consapevolezza di quanto il terreno dell’alta tecnologia sia vitale per la autoaffermazione, l’UE pensi alle norme e alla burocrazia.
Una strategia per l’IA: la necessità del coordinamento funzionale
Se qualcuno dovesse mai chiedersi per quale motivo l’Europa non ha, e verosimilmente non avrà mai, una propria Silicon Valley, la migliore risposta è nella foto di Thierry Breton entusiasta della approvazione dell’AI Act. Gli Stati extra-UE sparano con i cannoni, noi rispondiamo con i semafori. Bene fa Giorgia Meloni a richiamare la centralità di questo tema, la sua importanza geostrategica e altrettanto bene l’investimento annunciato di 1 miliardo di euro mediante Cassa Depositi e Prestiti. Anche l’autorità nazionale in tema di IA, come forma autonoma di agenzia o come modalità di accentramento di competenze in capo ad Agenzia per l’Italia digitale e Agenzia per la cybersicurezza nazionale, secondo quanto dichiarato di recente dal Sottosegretario Alessio Butti, è elemento essenziale: è necessario che si metabolizzi e si faccia scomparire tutta quella frantumazione stellare, quella parcellizzazione esasperata, quella pulviscolare dispersione, spesso episodica, di comitati, tavoli, consessi di esperti, uffici di scopo, istituiti presso questo o quel Ministero o quella amministrazione, magari persino regionale o comunale.
Non può esistere, non quando si parla di tecnologia così disruptive e dalle implicazioni così sistemiche, un ufficio sull’impatto dell’intelligenza artificiale sulla cultura, un altro sulla navigazione, uno sui treni, uno sul diritto, uno sul rapporto tra intelligenza artificiale e cucina. Quindi, bene che si passino in rassegna tutti quei temi ma in una ottica di coordinamento funzionale centralizzato in capo ad una Authority, razionale e cristallina nei compiti, economicamente sostenibile, senza perniciose sovrapposizioni di competenze che costringerebbero di volta in volta alle pastoie di una qualche actio finium regundorum.
Intelligenza artificiale, la lunga strada verso la semplificazione
Se la sfera pubblica vuole esercitare un ruolo in questa corsa, deve limitarsi a pochi, essenziali aspetti. Innanzitutto rinfocolare e rivitalizzare la ricerca. Non con slogan, ma impiegando fondi e soprattutto definendo una strategia, anche, di attrazione di investimenti e di cervelli, compresi i nostri che ci sono eccome ma che del pari, comprensibilmente, a volte preferiscono emigrare. Non si può prescindere poi dall’apporto della innovazione dei soggetti privati; ma per attrarre bisogna disboscare gli incombenti amministrativi e burocratici, snellire e ridurre in maniera significativa la selva oscura, e il relativo peso, della tassazione. In Italia è un dramma aprire un negozio, figuriamoci una start-up innovativa. Sovente gli studiosi del diritto amministrativo si divertono a enucleare il numero, sempre crescente, di autorizzazioni, comunicazioni, asseverazioni attraverso cui un povero privato deve passare per aprire una attività di vicinato.
In questo contesto, appare piuttosto utopistico pensare di poter governare per mano pubblica l’innovazione digitale e attrarre soggetti privati senza procedere a un radicale processo di semplificazioni amministrative. C’è anche qui un tema di coordinamento o, se si preferisce, di messa a sistema di realtà operanti o emergenti. Mentre ad esempio nei Paesi Bassi si è dato vita a una realtà come Brainport, innovativa e capillarmente diffusa, in Italia le singole realtà spesso appaiono slegate tra loro e scarsamente coltivate; si pensi al Tecnopolo che sorge in area Tiburtina a Roma, del quale molti giornali riportavano negli anni scorsi il degrado circostante e le difficoltà di collegamento, pessimi biglietti da visita per potenziali investitori. E, in tema di coordinamento, il Tecnopolo appare un corpo certamente innovativo ma isolato, quasi scisso dal tessuto sociale, produttivo e istituzionale romano e italiano.
Per semplificare poi, e qui torniamo all’inizio, si deve iniziare a modulare una cultura al passo coi tempi, uscendo dalle paludi della ossificazione formalistico-giuridica: il feticismo per la norma, l’illusoria propensione a ritenere che tutto sia regolabile e riducibile alla sfera del diritto. Ma è necessaria anche una ridefinizione delle professionalità stesse da coinvolgere in questi processi. La centralità del mondo giuridico, che permea ossatura delle amministrazioni e dei tavoli di esperti, è da mettere severamente in questione.