L’editoriale. Campo largo? Ciao ciao. Storia (breve) di un’ammucchiata senz’anima
Campo largo bye-bye. Dopo lo squill(ett)o di tromba della Sardegna i commentatori “amichetti” dei giallorossi si erano affrettati a individuare la prima crepa del destra-centro: parlavano, senza alcun freno inibitorio, di inizio della fine dello stesso governo Meloni. Tre settimane dopo, in effetti, è già crollato tutto. Non certo però dal lato della maggioranza: a cedere è stata l’intera impalcatura del centrosinistra della ditta Schlein-Conte.
Tracollo determinato da un uno-due micidiale: ieri, nel giro di poche ore, il campo largo è esploso in Piemonte, imploso in Basilicata. A scatenare tutto questo, come avevamo profetizzato nei giorni scorsi, la durissima batosta in Abruzzo: il fortino “meloniano” che Pd, 5Stelle e cespugli rossi speravano di poter violare sull’onda lunga dei titoli arrembanti di Repubblica e del Fatto Quotidiano e sulle farneticazioni di Alessandra Todde a proposito di una fantomatica «nuova Resistenza» partita dalla Sardegna a suon «di matite contro manganelli».
La realtà, come al solito, si è incaricata di presentare tutt’altra storia: l’unica coalizione politica è e resta quella guidata da Giorgia Meloni. Davanti a ciò la reazione a sinistra è stata, per caso, una sana elaborazione del lutto? O una riflessione sulla figura barbina e surreale fatta con gli abruzzesi, con i leader del campo “caos” che hanno svolto tutta la campagna elettorale evitandosi scientificamente? Macché: è tutti contro tutti. Da una parte Giuseppe Conte, annichilito dai consensi nei territori, ha reagito imponendo ad Elly Schlein di cambiare cavallo sulla Basilicata; dall’altra Carlo Calenda (ma anche Matteo Renzi) si è rimangiato ogni velleità di percorrere un solo altro passo con i grillini.
Al centro, sballottata da ogni lato, la segretaria dem che – tanto per non farsi mancare nulla – si è smarrita pure l’alleanza in Piemonte: l’accelerazione sulla candidata dem infatti, non concordata con i grillini, ha fatto saltare nervi e tavolo. Il risultato? Sul “campo minato” (copyright proprio di Conte) si è dilaniato l’intero progetto. Un disastro politico degno di un’opposizione incapace in un anno e mezzo di segnare un solo punto e con una corsa per la leadership – unico “tema” che sta guidando le rispettive campagne per le Europee – che sta terremotando le timide ragioni per andare insieme.
Il motivo di questa crisi è chiaro: la sinistra ha un popolo ma questo popolo non ha più trovato dei riferimenti. Elly Schlein, del resto, non è rappresentativa del suo stesso partito (che infatti non l’ha votata); Giuseppe Conte è un incredibile camaleonte, capace di sostenere tutto e il suo contrario (indimenticabile la sua definizione del Pd come «partito dell’establishment»); Carlo Calenda è un populista terzista nel tempo del ritorno al bipolarismo. E Matteo Renzi è sì un corpo estraneo ma è ancora uno spettro concreto nell’agenda del Pd. Come potrebbe questa ammucchiata, poi, fornire un domani una linea minimamente coerente sulla politica estera? Sull’immigrazione? Su tasse, giustizia, ambiente e temi etici?
È chiaro che la somma, in questo caso, non fa il totale. Al contrario: gli addendi finiscono per annullarsi l’uno con l’altro. Ecco perché non può bastare la metafora del campo da arare agognato da Romano Prodi. Il problema non si risolve, infatti, con nuovi “contadini”: se questi sono pronti a zappare i piedi dell’altro. Ci vuole una regia, un’idea di società. E un’anima. C’è ancora qualcuno, a sinistra, che ha qualcosa del genere da mettere in “campo”?