L’editoriale. Contro la furia del terrore mondiale la risposta è la Difesa (e la geopolitica dei fatti)
Il brutale attacco terroristico che ha insanguinato Mosca è un ulteriore tassello di quella «terza guerra mondiale a pezzi» che Papa Francesco proprio dieci anni fa ha individuato come stazione del dolore di un mondo troppo inquieto. Uno scenario dove le tensioni sfociano sempre di più in conflitti armati e dove il caos sembra avere la meglio sull’ordinamento e sul diritto. Il punto, dieci anni dopo e centinaia di crisi aggravatesi in tutto il globo, è che nessuno è più totalmente al sicuro: in parte perché l’afflato teleologico del capitalismo non ha azionato, come si sperava con troppo ottimismo, la leva della democrazia insieme alla sua espansione; in parte perché c’è una porzione di mondo pronta a rispondere colpo su colpo all’agenda che giunge da Occidente.
I pericoli, guardando a casa nostra, giungono da ogni lato: dall’espansionismo revanscista russo (la vecchia-nuova realtà degli ultimi due anni e mezzo), da quello economico-strategico di Pechino, dall’integralismo islamista, dalle ambizioni dei Paesi emergenti. In questo nuovo scenario “multipolare” – piaccia o no è così: le democrazie sono una minoranza nel mondo – e con gli Stati Uniti da anni in ritirata (la fuga dall’Afghanistan testimonia un fallimento indelebile che ha contribuito a risvegliare gli istinti aggressivi di Russia e Cina) l’Europa, per non rimanere schiacciata, è chiamata a dotarsi di una propria autonomia.
Autonomia che significa dotarsi anche di un programma industriale di difesa. Un sistema che in prospettiva (ci si augura remota) deve immaginarsi capace di rappresentare, in contesti di crisi, una forza di pace o di interposizione. Ma soprattutto un deterrente: militare, tecnologico dunque politico. È evidente, infatti, che gli organismi preposti a dirimere le controversie internazionali non sono aggiornati allo scenario attuale. Il caso emblematico è l’Onu: paralizzata dai veti. Mentre la Nato, da parte sua e al di là della golden share detenuta da chi investe pesantemente nel suo bilancio, necessita oggi più mai della cosiddetta colonna europea che guardi al Sud del mondo.
L’embrione di una difesa comunitaria potrebbe – dovrebbe – partire proprio da qui. Certo all’ultimo Consiglio Ue non sono giunte notizie assai confortanti in tal senso: l’idea di emettere strumenti finanziari comuni, come fatto per il Recovery fund, per le spese della Difesa, ha trovato l’opposizione dei soliti Paesi “frugali”: a partire dalla Germania. Ma è altrettanto vero che c’è un fronte, capitanato da Italia, Francia e Spagna, che lo ritiene un percorso necessario. E in questo “mundus furiosus” lo sarà, di certo, sempre di più: per proteggere non solo i cittadini ma con essi il sistema di valori, l’impianto sociale, il paradigma normativo dei popoli europei.
Anche su questo versante l’Italia e il suo governo si stanno dimostrando avanguardia. Perché questo è il dispositivo che spinge il rinnovato protagonismo italiano nel Mediterraneo e nelle aree critiche. È la geopolitica dei fatti: con la partecipazione attiva ai summit più delicati sulla vicenda mediorientale (Meloni è stato l’unico premier europeo a presenziare al vertice del Cairo), con i memorandum con i Paesi del Nordafrica divenuti – grazie alla spinta italiana – procedure europee. Lo strumento per eccellenza di questa strategia resta il Piano Mattei: il cui obiettivo nell’obiettivo è sottrarre quanti più attori dalla sfera di influenza delle altre potenze regionali e internazionali. Il resto si fa “in casa” con gli investimenti e con la comprensione di un principio basilare. Lo ha ripetuto qualche giorno fa Giorgia Meloni in Senato. Scandendolo bene, dato che a sinistra c’è chi continua a fare orecchie da mercante: «La libertà ha un costo. La sovranità ha un costo». Chi non accetta di pagarlo si espone alla libertà altrui. Fino ad adesso – nel bene e nel male – è stato più che altro il decisionismo a stelle e strisce. Domani potrebbe essere qualcosa di decisamente più invasivo.