L’intervista. Zangirolami: “Il rugby rosa cresce. I nostri primi fan? I rugbisti vecchia scuola…”
Classe 1984, nata a Noventa Vicentina ma da qualche anno adottata da Roma lì dove l’ha portata il cuore o, meglio, dove l’ha portata un avvocato anche lui rugbista Francesco detto Ramon con cui è convolata a nozze. Con la Nazionale impegnata nel Sei Nazioni femminile, il Secolo d’Italia ha fatto il punto con una grande protagonista della palla ovale: Paola Zangirolami. Trequarti centro con una lunghissima esperienza sui campi da rugby che ha iniziato a calcare a soli 7 anni, con 76 presenze con la maglia dell’Italia di cui è stata anche capitano e, dopo l’addio al rugby dato in occasione della coppa del mondo femminile del 2017, è team manager della Nazionale Femminile nelle categorie U18 e U20.
Nonostante una concezione diffusa che lo etichetta come uno sport, pur se nobile, brutale e sporco e adatto solo a praticanti uomini, il movimento rugbistico femminile è molto vivo, prende sempre più spazio nel panorama del rugby e, in Italia, ottiene raggiunge da anni dei risultati ben più lusinghieri dei pari ruolo uomini.
Senza dubbio a livello mondiale c’è stata una evoluzione del movimento femminile, sia come numero di partecipanti che come qualità del gioco. Se prima c’era una impostazione di gioco molto tecnica, anche sul piano fisico si sta aumentando sempre più la qualità e se le partite una vota avevano un ritmo più lento, oggi si sta raggiungendo il livello della selezione maschile.
Il rugby italiano femminile sconta un pesante gap rispetto alle altre nazionale – soprattutto quelle partecipanti al Sei nazioni: non ha ancora raggiunto il professionismo. Pertanto chi lo pratica deve adattare gli impegni sportivi con un lavoro che dia sostentamento economico.
Da quest’anno le ragazze selezionate per la nazionale che affronterà il Sei nazione avranno un contratto, il che gli permetterà di poter dedicare maggior tempo al rugby. Nonostante ciò il consiglio che do alle ragazze è di cercare di avere sempre un lavoro oltre al rugby, perché se, come può succedere, alla fine ti fai male la carriera si interrompe e a quel punto è sempre necessario avere un piano B ed è utile fare entrambe le cose, sia rugby che lavoro. È logico che l’impegno è maggiore rispetto a chi ha la possibilità di dedicarsi integralmente al rugby, ma è fattibile perché in fondo è quello che finora abbiam sempre fatto.
Negli anni passati la Nazionale femminile azzurra ha ottenuto, soprattutto nel Sei Nazioni, ottimi risultati. Anzi, possiamo affermare che sono stati raggiunti obiettivi che la Nazionale maschile non ha mai raggiunto, come nel 2019 quando con 3 vittorie e un pareggio le azzurre sono arrivate al secondo posto del torneo dietro l’Inghilterra. Il cuore conta molto, ma l’aspetto fisico e quello tecnico sono imprescindibili. Qual è il lavoro che ha portato a questi risultati?
Da quando Andrea Di Giandomenico ha iniziato ad allenare la Nazionale femminile c’è stato un cambiamento sulle modalità di gioco. Posso dire che ci ha insegnato davvero a giocare e, essendo rimasto tredici anni alla guida tecnica, c’è stata una certa continuità. E quindi anche il gruppo, man mano che c’era un naturale ricambio tra le giocatrici, riusciva comunque a mantenere una sua identità di gioco. Quindi Andrea è stato molto bravo nel riuscire a imprimere questa modalità di gioco.
Il settore maschile, soprattutto in questo Sei Nazioni appena disputato, ha raccolto il frutto di anni di attenzione al settore giovanile e una U20 frutto di anni di lavoro nelle accademie federali ha rimpolpato una nazionale seniores davvero competitiva e di altissimo livello tecnico e caratteriale. Nel settore femminile invece?
Nel settore femminile siamo leggermente più indietro rispetto al maschile. Per adesso non ci sono ancora le Accademie ma facciamo dei lavori zonali e poi, da lavori territoriali, passiamo direttamente alle nazionali. In un futuro, spero molto vicino, magari dovremmo iniziare un lavoro tipo Accademie, perché per far fare esperienza di un certo livello a rugby è fondamentale la continuità nel metterle in campo per provare determinate cose e lavorare con il gruppo. I risultati si incassano provando e poi continuando e continuando e continuando.
Il rugby, pur essendo considerato uno sport nobile e cavalleresco, ha una proiezione esterna di sport duro e rude adatto solo a maschi un po’ “animaleschi”. E invece il movimento femminile cresce e si afferma sempre più. Quanto è inclusivo il mondo del rugby?
All’interno di ogni gruppo lo sport è molto inclusivo perché, anche grazie ai molti ruoli differenziati, ogni tipo di fisico (alto, magro, basso, robusto) può trovare uno spazio e una collocazione utile per la squadra. Inoltre, nei confronti ad esempio della disabilità, si stanno sviluppando moltissimi progetti federali di rugby integrato che vengono poi realizzati dalle società, come ad esempio a Roma sta facendo la Capitolina.
E nel rapporto tra uomini e donne all’interno del mondo del rugby?
Lì va detto che ci sono uomini vecchia scuola che… non ce la possono fare, niente, è più forte di loro e non possono accettare questa cosa del rugby femminile. Ma è anche vero, e va detto, che proprio loro sono quelli che quando vedono una partita di rugby femminile si ricredono e dicono “caspita, ma queste ragazze davvero giocano così?”. Ma finché non andranno al campo a veder giocare le donne rimarranno sempre della loro idea.
Un’ultima domanda prima di lasciarti, cosa diresti ad una ragazza che non conosce il rugby e magari, rispetto ad altre discipline, lo considera al di fuori della propria portata?
Sicuramente di venire a vedere una partita, che sia maschile o femminile, per iniziare ad approcciarsi allo sport. E poi, magari, venire al campo, provare qualche allenamento per poi magari innamorarsene.