Il libro. “Algoritmi e preghiere” di Bovalino: il nuovo reale lo porta Zarathustra (social)

7 Apr 2024 10:00 - di Andrea Venanzoni

«Gli umani sono costantemente alla ricerca di un senso che giustifichi la loro esistenza, di un potere che ne orienti il vissuto e di visioni che li aiutino a sublimare la paura della morte», così si apre la “Prefazione dal futuro” del nuovo libro di Guerino Nuccio Bovalino, “Algoritmi e preghiere. L’umanità tra mistica e cultura digitale” (LUISS University Press). Un volume che si inserisce nell’ancora scarsamente battuto, almeno in Italia, sentiero che conduce al fulcro della gnosi elettronica. D’altronde come scriveva William Blake, la via dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza. E qui all’eccesso vanno aggiunte, nel comporre un ordito architettonico, le correnti oceaniche di analisi antropologica, religiosa e mistica che arrivano a penetrare nel golfo di silicio di ciò che Deborah Lupton definisce il «computer intimo».

Immaginate Lévi-Strauss, Brelich, Malinowski, van Gennep, prima e poi storici delle religioni come Mircea Eliade, intenti a confrontarsi con lo schiudersi di un mondo altro, di un primitivo contingente che si dipanava nel qui e ora del loro essere e con la funzione catartica, protettiva, ierofanica della proceduralizzazione del rito come esorcismo della solitudine, per dirla alla Blanchot, dell’uomo nella nuda vastità del cosmo. Oggi siamo in quell’esatto punto, in quel segmento metafisico di penetrazione in un (ir)reale in cui la tecnologia scintilla di magia.

Come puntualizza Luciano Floridi nella fascetta pubblicitaria che adorna il volume, «un libro per capire meglio la perenne sfida della creazione di un capitale semantico che dà significato e senso complessivo alla vita». Il libro di Bovalino si inserisce nella tradizione seguita nella anglosfera da autori come l’Erik Davies di “Techgnosis” o il Mark Dery di “Velocità di fuga”, ma che alle nostre latitudini è assai meno investigata, e proprio per questo le pagine del libro assumono una importanza fondante.

Fondante, non solo fondamentale. Perché mentre William Gibson punteggiava la sua Trilogia dello Sprawl di riferimenti ad animismo, tecnopaganesimo e soprattutto Vudù, mentre Neal Stephenson dipingeva con vivide pennellate di porpora e grigio-transistor un futuro di magia nera sumera e virus informatici, noi eravamo ancora fermi a cercare di capire la scatola primordiale del computer. E mentre nella liquida, caotica consistenza della rete globale si assommavano genie di demoni, noi ci interrogavamo su norme e codicilli, senza renderci conto che l’esistente ardeva, rifondato radicalmente dall’alta tecnologia e che templi e Dèi del passato bruciavano incendiati, come la Chrome di William Gibson.

Cyber-cabala e esistecnica: ontologia degli spettri del digitale

Il prologo del saggio di Bovalino echeggia la cromatura anodina di “Neuromante” di Gibson, sostituendo il porto di Chiba con ricordi di infanzia su una spiaggia del profondo Sud italiano. Analoga però la consistenza pastosa del prodigio, in senso medievale di ciò che si schiude davanti i nostri occhi promettendo epifanica deflagrazione. In questo spaccato alla Ernesto de Martino, di ritualità popolana e magica del Sud, assistiamo a una preghiera colma di spiritualità pagana, ancestrale, pure però ibridata in un dispositivo, lo decliniamo alla Foucault, come usa d’altronde lo stesso Bovalino, che assomma cristianesimo rurale, sapienza popolana e necessità di incidere sul reale.

La preghiera, il rito, il soprannaturale, la magia, e da ultimo la tecnologia avanzata, sono dispositivi di confronto con il reale e con la infinita, spaventosa, consistenza della natura. Dalle trombe d’aria ai terremoti fino alla conquista dello spazio e al mare largo azzurrognolo e bianchiccio del digitale, l’essere umano ha necessità di tecnica esorcistica: per governare il reale, per venire a patti con la complessità stordente e accelerata, per appuntare lo sguardo nel fondo bianchissimo e cieco della tecnologia, come direbbe Paul Virilio.

Il capitolo I è esattamente destinato alla analisi del collegamento funzionale e ortopedico dell’essere umano con la sfera superna, con gli Dèi, antichi e nuovissimi. La preghiera come algoritmo, come procedimento di inscatolamento, spiegazione e comprensione di ciò che non può essere spiegato o compreso. «I nemici pregano per la tua morte, mercenario. Pregano fino a sudare. Le loro preghiere sono un fiume di febbre», scrive William Gibson in “Giù nel Cyberspazio”. Bovalino lo echeggia annotando, «il vuoto è la potenza originaria in cerca di una maschera su cui proiettarsi per fornire alla umanità una momentanea entità guida».

La preghiera e la connessione con il digitale spiegano, nel loro accadere moltiplicato, la conquista di un senso spettrale che rimarrebbe, senza strumenti tecnici evoluti, del tutto evanescente e mostruoso. Con pregevole ricostruzione tassonomica delle figure dell’iper-reale, attingendo a dispositivi multidisciplinari, e passando in piena coerenza tra distinti livelli del sapere, da Walter Benjamin al futurismo, da Foucault alla poesia di Celan, Bovalino snuda la forma mistica dell’ontologia digitale.

Mystica mostruosa

Mostri e figure impossibili di un reale che non riconosciamo, che percepiamo come dimensione sublimata di colonizzazione dell’immaginario collettivo, popolano due capitoli che si soffermano sul Monstrum e sugli Androidi. Le figure epocali di una mitografia di silicio e visioni, che Bovalino assembla chiamando in causa il Bataille dell’Acéphale, quel taglio asimmetrico nelle carni della sovranità psichica: d’altronde, l’accelerazionismo alla Nick Land prenderà avvio esattamente dalla ferocia mistica di quello stesso Bataille, in ‘The Thirst for Annihilation’, primo, e scarsamente letto, saggio di Land, risalente a quando il passato era troppo passato per poter essere accelerato.

Ricorrendo alla astrazione per metafora e alla sussunzione quasi alchemica di layer di saperi differenti, Bovalino attinge alla tradizione consolidata del perturbante mostruoso, nel cinema come nella vicenda dell’Uomo Elefante, cinematograficamente dipinto da Lynch, o al più recente Joker di Phillips. Il mostro, il freak, nella società analogica, rileva Bovalino, era la figura segnaletica dell’ordine, della reiterazione del dominio, mentre nel ventre opaco del digitale incarna lo spettro mistico di consenso, risultando per tale fortemente attrattivo.

Non per caso, confermiamo, Masahiro Mori, uno dei padri della moderna cibernetica, studiò lo sviluppo della robotica seguendo direttrici di mostruosità, di religiosità e di “perturbante” freudiano. La mistica in questa prospettiva, pur nel digitale, continua ad essere quella intersezione carnicina «dove si resiste all’autoaprirsi del cuore di Dio nel fuoco e nella notte’» per citare Hans Urs von Balthasar. E il mostro, la preghiera, la visione, la fotografia si rendono lunghissimi istanti ininterrotti, che davvero vampirizzano il reale.

La morte, nel digitale, è ricordo perenne, non-vita e non-morte, essere-nel-tra, tra due punti di realtà e di irrealtà senza poter consistere dell’uno o dell’altro; in perenne e immutabile divenire che alimenta lo spettro mostruoso, in quanto non razionalizzabile, di ciò che era forma vivente e con cui abbiamo interagito nella nostra vita. Zombieficazione delle emozioni, lungo processo algoritmico in cui l’individuo cessa di essere sostanza e si rende aura iridescente in cui nulla è vero e tutto, davvero, è permesso.

L’universo dis-assembla la propria consistenza materica e accede, grazie alla coscienza tecnologica, a livelli ulteriori di una realtà non situata semplicemente oltre, ma nell’ombra interstiziale, simile al voudon tecnologico di Reginald Crosley, partecipando della quale possiamo avere controllo e dominio di questo stato non-materico.

Il reale, dopo il reale

Il pregio principale del corposo, erudito e stratificato saggio di Bovalino è lasciar trasparire in maniera chiara, al pari di un breviario del caos, quanto e come il digitale e l’alta tecnologia presentino delle caratteristiche trasformative del nostro reale. Non solo della percezione che noi abbiamo del reale, ma di come questo sia forgiato, alimentato, nutrito, modellato e modificato dai dispositivi tecnici. Direttamente e plasticamente inciso. Il sociale, il senso di comunità, la dimensione comunicativa, quella politica, la cultura sono trasvalutati, rimescolati e pasturati nella fornace d’inferno del silicio.

La neotribalizzazione primordiale dei legami psichici e sociali, la statalizzazione delle piattaforme digitali, rese isole nella Rete, alla Sterling, forse molto più oggi che allora, la riproduzione digitale della pursuit of happiness all’interno del cui magma sanguinolento non abbiamo più cittadini ma schegge impazzite, ologrammi auto-replicabili nella eternità dei frame. «Siamo tanto più vicini alla mistica quanto più completamente il tempo svanisce dalla nostra memoria», ha scritto Emil Cioran in “Lacrime e sangue”. E nel digitale, il tempo non ha più senso e contesto, perde aderenza, si struttura in uno scorrere circolare come serpente del ciclo della vita.

Mistici e profeti, all’ultimo consistere del tramonto dell’essere di carne, Zarathustra social che discende dai monti al volgere del giorno, quando i petali della notte si stendono sulla fisionomia di ciò che resta del reale. Portano in dono un nuovo reale. Per comprenderlo, non basteranno norme e tavoli tecnici, ma servirà quella sana follia del creare d’impulso, l’umbratile magia del caos elettronico.  E servirà, del pari, leggere il saggio di Bovalino.

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