L’editoriale. “Made in Italy”, perché difenderlo significa più umanesimo per tutti

16 Apr 2024 8:20 - di Antonio Rapisarda

Il messaggio giunto ieri – con l’istituzione della prima giornata ufficiale dedicata al “marchio”, sublimazione di un lavoro svolto ogni giorno da parte del meglio della comunità produttiva nazionale – è chiaro: non si gioca (più) col “made in Italy”. È finita, questo è l’impegno solenne del governo Meloni, l’epoca in cui fra delocalizzazioni, svendite e desertificazione industriale, dell’eccellenza tricolore si è potuto fare merce da discount quando non da baratto: rigorosamente a perdere. Ciò che “parla” italiano, questo è il mantra, ha un valore unico: porta con sé un codice universale. Un valore che soltanto una lunga e, ahinoi, radicata cultura anti-nazionale, frutto della volontà di un preciso establishment, ha potuto relegare a souvenir; e non ad elemento vivificante su cui costituire la propria identità nel suo rapporto col mondo.

Alla base, in tutti questi anni, vi è stata l’idea opposta: ossia che il “made in” potesse sopravvivere scorporato dal genius loci, slegato dalle coordinate spaziali e culturali che fanno di ogni cosa un pezzo – irripetibile – di un mosaico. Principio scellerato dietro a cui si è celata la reale intenzione: devitalizzare la vocazione industriosa degli italiani. Pro domo chi? Di sicuro non quello di chi sostiene – Costituzione alla mano – un certo modo di intendere la responsabilità sociale dell’impresa. Perché dietro il marchio italiano non vi è soltanto un fatto “bello e ben fatto”, un prodotto non replicabile, ma una vera e propria idea. Un modo di intendere l’ecologia delle relazioni umane e ambientali. Un approccio, per dirla con Olivetti, chiamato «umanesimo industriale». Ecco che cosa significa “made in Italy”.

Non solo un brand da tutelare insomma, con le sue eccellenze, dalla concorrenza sleale e dai tentativi di imitazione. Produrre italiano significa pure proporre agli altri qualcosa che ha una funzione dentro e fuori i confini nazionali. Una visione. È fare politica estera e soft power attraverso la propria cultura del lavoro e l’ingegno di un’intera società. È difendere – avanzando in una competizione globale serrata – un mercato interno dall’aggressione commerciale assieme a ciò che quel sistema rappresenta fin dalla notte dei tempi: per noi, ovviamente, ma anche per chi fa dell’Italia e della sua storia un punto di orientamento rispetto all’avanzata di sistemi spersonalizzanti. Vecchi e nuovi.

Riprendere in mano il proprio destino significa ridefinire uno spazio tangibile nell’immaginario, un ruolo nell’opinione pubblica mondiale, qualcosa da cui non si può prescindere perché modello non replicabile in serie. Se si è capaci di essere centro di produzione, questa è la chiave, si è centrali nel mondo. E se dentro quel prodotto c’è “davvero” l’Italia  non potrà mai essere un pacco o una scatola vuota. Fra le mani si ha un dono geniale.

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