Trent’anni senza Kurt Cobain: l’imperfezione divina (e rock) dello spirito adolescenziale

5 Apr 2024 8:00 - di Fernando Massimo Adonia

Trent’anni è un lasso di tempo sufficiente per fare i conti con la storia. Uno spazio temporale entro cui possono incontrarsi almeno tre generazioni di essere umani e piangere simultaneamente. Il 5 aprile del 1994 si perdono le tracce di Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, l’alfiere – e forse anche boia – del grunge. Il suo corpo verrà ritrovato soltanto tre giorni dopo, rendendo incerta anche la data di una morte autoinflitta e già sfiorata in quel di Roma poco più di un mese prima.

Si tratta di dettagli, ma che rendono ancora più sfumata la vicenda frastornata del volto simbolo della «Generazione X». Adolescenti, quelli degli Anni Novanta, che dopo un secolo di narrazioni fin troppo coercitive e pressanti, si ritrovarono senza alcuna causa da combattere: smarriti, annoiati e stanchi. Nel nulla. Il socialismo sovietico era crollato su sé stesso, mentre l’iper-ottimismo reganiano, lievito della più sfrenata concorrenza sociale, aveva mandato in debito d’ossigeno l’interno Occidente. E non soltanto gli Usa, che ancora dovevano fare i conti con i lutti della guerra del Vietnam e le tante produzioni televisive che non potevano non rievocare un trauma tutto interno.

La generazione attuale non è messa meglio, costretta a fare i conti con i fallimenti dei propri padri – quelli cioè che sono riusciti a vivere l’ondata provocata dai Nirvana prima e dopo il suicidio dell’angelo di Seattle –, ancora in cerca di una propria missione nel mondo. Trent’anni appena e la favola della globalizzazione si è già conclusa: tra crisi finanziare, minacce pandemiche e nuovi presagi di guerre atomiche. E ci sente tutti un po’ più soli.

Kurt Cobain aveva rappresentato qualcosa, non soltanto le inquietudini di un’epoca che lui per primo aveva tentato di anestetizzare con massicce dosi di eroina. Un musicista non particolarmente tecnico, un cantante tutt’altro che aggraziato, un paroliere allucinato. Un uomo sregolato, infelice e tossico. Tutto vero. Allo stesso tempo però aveva spiegato al mondo che anche l’imperfezione poteva – e può ancora, perché no – spalancare le porte al successo. Un successo che lui, per primo, non era stato in grado di sopportare, annegando in un fallimento esistenziale. L’iconografia di un Gesù Cristo mancato e nichilista (il gesuita Antonio Spadaro ha forse trovato una chiave di lettura efficace).

Quella di Cobain è una vicenda paradossale e – come tale – destinata a rimanere imprigionata per sempre dentro gabbie d’acciaio. Nevermind fu l’album perfetto, anche troppo. In Utero, il terzo e ultimo lavoro in studio, voleva invece che fosse graffiante e sporco. E così fu, tra la riprovazione di chi lo avrebbe dovuto produrre. E dire che il titolo doveva essere un altro, ben più rivelatore: I hate my self and I want to die.

Probabilmente è nell’Unplugged in New York il testamento spirituale, un evento dove le esigenze del mainstream targato Mtv sono andate a sbattere come pietre sul genio di Kurt, provocando una scintilla allo stesso tempo immortale e funerea. Pubblicato postumo, non fu la riproduzione in acustico dei maggiori successi dei Nirvana, ma semplicemente altro. E non sarà forse un caso se il brano simbolo di quella serata sia una cover di David Bowie: The man who sold the world. L’uomo che vendette il mondo. Ma chi ha venduto chi? Purtroppo, la risposta non c’è. E non ci sarà: neanche tra dieci anni.

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