Anatomia di un’impostura. Contro Judith Butler: “star” del gender. Perfetta per questi tempi di confusione
Coccolata. Riverita. Celebrata. È Judith Butler, in tour anche in Italia. A Bologna e alla Sapienza di Roma. Star influente di un mondo sempre più postmoderno, relativista, annegato nel costruttivismo dei paradossi, celebrità osannata dall’alto delle sue partecipatissime conferenze e dei suoi celebri libri, più celebri in realtà per un passaparola continuo ed eccitato che non davvero per l’essere letti. Lo dico subito e senza alcun infingimento, perché la neutralità è una ipocrisia enorme e non a caso la neutralità costituisce un mostro del costruttivismo filosofico della Butler stessa: reputo la Butler una totale impostura intellettuale, e mutuo l’espressione dalla nota opera di Sokal e Bricmont. L’ho detestata sin da quando molti anni fa incontrai il suo funambolico, lisergico, supercazzolatissimo pensiero. E la detestai perché mi costrinse fattualmente a preferirle delle femministe radicali, anti-sesso, anti-porno, anti-tutto, ma senza dubbio più cristalline, limpide e oneste nelle loro intenzioni censorie e bigotte e anti-umane, autrici come Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon, con la quale ultima la Butler non per caso ha più volte polemizzato.
A differenza di molti caduti sul campo di “Gender Trouble”, a partire da Donna Haraway che lo ha definito – non stupisce per chi familiarizza con l’autrice del ‘Manifesto Cyborg’ e di ‘Chtulhucene’ (il cui titolo originale, ‘Staying with the Trouble’, è assai butleriano) – “un classico”, e che costituisce certamente l’opera butleriana più celebre e che le è valsa la notoria nomea di madrina delle teorie di genere contemporanee e soprattutto l’aura da nume tutelare del transfemminismo, la mia attenzione fu polarizzata da quello che secondo me è il suo testo davvero più problematico e pericoloso, “Excitable Speech”. Perché la Butler è pericolosa, sì. E questo è un suo merito. Chiunque sia pericoloso ha una sua intrinseca dignità e questo glielo si deve riconoscere.
È pericolosa perché, a differenza di molte altre imposture intellettuali della post-modernità, variamente abbeveratesi a una cattivissima lettura della French Theory, la Butler ha coltivato per lungo tempo il mitema dello “sporcarsi le mani” con maggior successo rispetto ad altri suoi meno noti omologhi. Premiata anche da un tempo di grande caos sotto il cui cielo si addensano le nubi eccitanti dei potenziali grandi cambiamenti e nel quale in lei si vede la Giovanna d’Arco di una apparente libertà senza responsabilità alcuna.
La libertà di sentirsi e quindi essere qualunque cosa si voglia e pretendere, qui nasce il dramma, che questa pretesa venga eretta a presidio statalizzato di civiltà. L’attivismo per la Butler non è infatti un corollario gingillato, un ninnolo d’argento, ma una pretesa fondante. Un grande problema già evidenziato ed emerso storicamente con i Critical Legal Studies e con le varie “teorie critiche”: l’ossessione biografica dello sporcarsi le mani, di uscire dalla torre d’avorio e confondersi con le masse ribelli e tumultuanti, succhiando il midollo della vita tra i cenciosi negletti, facendosi loro portavoce e dicendo loro cosa pensare, cosa fare, cosa amare e soprattutto cosa e chi odiare. Non un attivismo, quindi, come metodologia di analisi scientifica sul campo ma quale lavacro personale, catarsi, riscatto.
La Butler che legge Hegel e poi la sera frequenta bar leather per lesbiche è l’equivalente psichico del giurista che, ce lo ricorda Gary Minda in ‘Teorie postmoderne del diritto’, ritiene la sua lotta nel diritto e per il diritto un esercizio vacuo che può trovare senso ed essere ideologicamente implementato, per arrivare frankensteinianamente a consistere di vita, soltanto immergendosi nella fabbrica e nei suoi odori e nel suo vociare e nella sua miseria. Un operaismo oleografico, chic e virtuale che pure in Italia abbiamo conosciuto, e la cui linea d’orizzonte si è ingolfata di burroughsiani che mandarono avanti a sparare gli altri. Rigorosamente e solo gli altri. Questo ologramma di vita proletaria in assenza di proletariato è stato causa celebre del progressismo radicale americano, e non solo americano, e che come sovente avviene presenta un conto salato ai suoi stessi fautori perché li illude che nettandosi la coscienza con due settimane di fabbrica o otto notti nelle dark room dei locali gay il mondo sia finalmente a portata di mano. Per essere compreso, decostruito e distrutto.
Butler contro Butler; la filosofia dell’autopromozione.
Butler è la filosofa perfetta per questi tempi di confusione, e lei stessa lo ha capito brandizzandosi e presentandosi come una rockstar del gender e “dei diritti negati”, con intelligente operazione di marketing pseudo-filosofico. Rockstar dal facile aforisma, ormai la Butler è una produttrice seriale di frasette ad effetto utili giusto per eccitare le sinapsi dei riottosi del gender, per abbellire qualche maglietta o lordare i muri cittadini durante la transumanza dei cortei transfemministi.
Basta guardarla mentre elargisce preziose massime di vita, nel fulcro dell’assemblea inkefiahta di Bologna, presente pure l’ineffabile Zaki, ed eccola dire ‘queer is not an identity, it is an alliance’: non vuol dire niente, ovviamente, ma crea hype e i presenti si sbrodolano. D’altronde secondo la Butler, questa alleanza post-strutturalista e intersezionale accoppia strutturalmente migranti, antifascisti, jihadisti letti come resistenti anti-coloniali, senza-tetto, lesbiche, trans, omosessuali, intersex, poliamorosi, lei dice pure le donne ma ho qualche dubbio, tutto nel nome del socialismo globale e contro il neo-liberismo imperante, quello stesso neo-liberismo di cui Judith Butler è ormai involontaria sacerdotessa, operando come sublime postal-market filosofico-merceologico di autopromozione della propria persona.
Il suo costruttivismo iper-relativista che problematizza tutto, divellendo le incrostazioni delle identità e sostituendole con una performatività radicale, è filosofia che dietro bizantinismi laocoontici ed espressioni fintamente colto-scientifiche, quelle che ci hanno già imbastito e apparecchiato i vari Foucault, Latour, Guattari, Lacan, Derrida, ma almeno loro avevano portamento più elevato, non poteva non conoscere enorme successo. Una ontologia teatral-comunista che finisce per sussumere nel suo caotico gorgo anti-autoritario una lotta antifascista totalmente priva di un orizzonte fascista: ovvero un dispositivo problematizzato che nel corpo biologico scorge i lineamenti di un fascismo eterno, gretto e storicamente però a-fascista.
Per Butler infatti non c’è grande differenza tra un migrante che muore in mare, un palestinese saltato in aria per una bomba israeliana e una persona trans a cui non viene riconosciuto di essere individuo trans. Sono tutte vittime della stessa violenza. D’altronde se la performatività, nel senso linguistico che la Butler mutua a modo suo da John L. Austin, sostituisce l’essenza, anche il mero sentimento violato è genocidio. Problemi immani del costruttivismo e del suo smarrimento nel dedalo delle proporzioni e del senso del ridicolo.
Altro problema a cui la Butler non potrà mai dare alcuna convincente spiegazione è che la decostruzione delle identità per affermare la propria presenza nel mondo esige una iper-regolamentazione e un normativismo feticistico molto, molto identitario: se erigi una statua di argilla e la vuoi far esistere, dovrai presidiare la vacua assenza di qualunque fondamento ontologico con una ontologia spettrale intessuta di regole, divieti, imposizioni, comandi, tabù, ciascuno dei quali sia presidio armato contro la negazione di queste nuove soggettività da parte di soggetti terzi e contro l’ipotesi che qualcuno urli che il Re è nudo e che quella è solo una statuina di argilla.
Così, tutto è pericoloso, nemico, cattivo. Fascista. La biologia? Fascista. Dire che una donna sia una donna? Fascista. La scienza in generale? Fascista. Se non si piega, ovviamente, alla performatività radicale del progresso. Naturalmente la china del costruttivismo è talmente scivolosa e fangosa che la stessa Butler ha dovuto prendersi qualche pausa e qualche respiro e problematizzare la sua stessa problematizzazione perché le era apparso che il suo evangelio fosse stato interpretato oltre una qualche soglia di guardia.
Ha più volte infatti stigmatizzato la semplificazione operata in sede ermeneutica da parte di altri del suo pensiero, cioè se la è presa con il fatto che qualcuno riduca le sue teorie a svegliarsi una mattina e decidere di identificarsi sessualmente in un opossum. Il punto è che questa semplificazione le potrebbe risultare sgradita, ma a questo esattamente porta il suo pensiero. E mi sembra poi che in questi ultimi tempi, intrisi di Queers for Palestine, che lei sostiene, e di global Intifada, sia tornata al punto esatto di partenza. Con il dramma di non poco momento che lei non è il Vecchio della Montagna e se quello sosteneva che “nulla è vero, tutto è permesso” lo faceva in uno scintillante rigore che avrebbe abbagliato lo stesso Nietzsche e che ne “I Fratelli Karamazov” sarebbe stato discusso e rovesciato.
Per la setta nizarita degli ‘Assassini’ quella irrealtà diffusa era spirito di auto-responsabilizzazione, non di relativizzazione completa del cosmo. E sapevano bene quale è il rischio di abbeverarsi a una finta libertà priva di responsabilità. La Butler invece non vuole o non può capirlo.
Anche le parole sono azioni: sui genocidi di carta e su quelli di carne
Wittgenstein, sulla scia di Goethe, ha scritto che anche le parole sono azioni. La parola è il campo di battaglia che in maniera ora evolutiva ora involuta e contorta perimetra la forma del conflitto occidentale: a partire da Nietzsche che proprio nella filologia lascia albergare il seme della decostruzione della metafisica cristiana fino a Bataille e al Derrida di “Della grammatologia”, la battaglia di senso e contesto della parola è approdata ai cessi. Non in senso metaforico, ma dannatamente empirico.
Nella sua ansia di assimilare, per sottrazione e negazione, linguistica e ontologia, il pensiero butleriano dipinge la semplice critica a equivalenza al genocidio. La facilità di una accettazione genocidaria nella sua linea semantica ed espressiva porta la Butler a una certa generosità, strumentale, nell’uso del termine. In una affollata conferenza tenuta alla prestigiosa London School of Economics, la Butler ha stigmatizzato il genocidio, ha detto proprio genocidio, attuato da Israele contro i palestinesi di Gaza.
Ma per la Butler, lo ha detto nella stessa conferenza, sarebbe genocidio fascista attuato in Usa la battaglia della destra contro le persone trans: peccato che il “genocidio” in questione sia la battaglia culturale e solo culturale che molti media conservatori hanno deciso di portare avanti contro certe parole d’ordine transfemministe e del pensiero woke. Non una cancellazione di individui, non il loro omicidio su scala industriale, ma una semplice lotta dialettica e intellettuale che però la Butler vernicia con le preoccupanti sfumature della autentica violenza. Perché nel profondo del suo pensiero, lei crede davvero quella sia violenza.
La agglutinazione di una ontologia oggettivizzata per genere nella prospettiva della Butler è una follia pericolosa. La realtà espressa dal candore della biologia, le mestruazioni e la maternità quali elementi connaturati al genere femminile degli abomini. Una passione fascista, come titola il suo recente giro di giostra bolognese. Con un fascismo elargito a piene mani, ovviamente. Salvo non vederlo dove magari esso finisca per palesarsi sul serio. Ad esempio in certi Paesi di rigida osservanza islamista dove le donne vengono frustate, lapidate, violentate, massacrate.
La Butler tace sull’Iran e sulla sua brutale repressione del dissenso, la Butler tace sulla condizione omosessuale tra i palestinesi o sulla condizione femminile nell’Afghanistan dei Talebani, ritenendo molto più pericolosi e violenti gli Stati liberal-democratici occidentali impestati dal demone capitalista, altra bestia nera della filosofa. La Butler è quella che già nel 2006 a Stanford lodava Hamas e Hezbollah, come parti integranti della sinistra globale e come legittimi movimenti di resistenza sociale. La Butler è quella che, tendenzialmente giustificando come atto di legittima resistenza anti-coloniale lo scempio del 7 ottobre 2023, verrà poi a dirti che non accettare certe convolute e contorte teoriche transfemministe sia il vero atto di violenza.
Mica stuprare una donna o decapitarla, se la poveraccia ha la dubbia ventura di appartenere a un gruppo considerato (dalla Butler) egemone, no, la vera violenza è negare i bagni non-binari nei plessi istituzionali, sbagliare il pronome identificativo o dire che una donna sia una donna. Donna, invece, insegna la Butler in piena coerenza con il suo costruttivismo radicale, è chi la donna fa, un po’ come per la Murgia fascista è chi il fascista fa. Il veleno della performatività, in buona sostanza.
Contro la libertà, contro le donne
Molti di quelli che si rimpinzano la bocca con le parole ‘diritti’ o ‘libertà’ lo fanno in genere per autoconvincersi di credere davvero nella libertà o che quei ‘diritti’ esistano davvero. Ma in realtà, alla fine della fiera, non ci credono nemmeno un po’. Esemplare in questo senso la postura contro-discorsiva che la Butler erige contro le femministe anti-porno e più in generale contro le femministe che oppongono la narrazione transfemminista che leggono, giustamente, come escludente e come pericolosa per le donne.
Contro le prime, quelle che si scagliano contro la pornografia e la prostituzione, la critica, argomentata in ‘Excitable Speech’, non è per eccesso di richiesta censoria ma solo perché esse non comprenderebbero in quale direzione quella censura dovrebbe essere azionata, contro chi e soprattutto quale ne sarebbe il vero fondamento di legittimazione. Mentre per le femministe a favore della censura e patrocinatrici di legislazioni contro porno e prostituzione la censura avrebbe un fondamento statale e di patto sociale, per la Butler essa è la risultante di un conflitto ontologico.
Proprio per questo la sua vocazione censoria è assai più profonda e pericolosa di quella esercitata da una Dworkin. Il fondamento sostanziale del conflitto che dovrebbe emendare il linguaggio sessualizzato non può riconoscere nella alterità alcun elemento degno di dialettica: la censura per la Butler è il mancato riconoscimento dell’avversario, relegato al canone della scomparsa dal campo dell’essere e ridotto a nemico oggettivo contro cui imporre una dogmatica conflittuale. Non a caso vede fascismo e fascisti ovunque. Proprio per incidere con ancor maggiore peso semantico nella sua forma di dualismi inconciliabili e di opposizioni intransigenti.
L’apparente libertà evocata dalla Butler, sotto condizione di performatività autocosciente, è un abbaglio grottesco che non può reggere all’urto della vera natura della libertà: come nel paradosso di un approccio anti-identitario che si rende fattualmente iper-identitario, così del pari la libertà della Butler è una libertà monolitica, burocratica, grigia, arida, intessuta di corpi condannati a vivere solo nel proprio auto-riconoscimento intriso di codici e regole e tabù e sanzioni e censura.
Non a caso, pur criticandole, la Butler poi cade nell’incidente discorsivo di concordare con le femministe statolatriche e anti-porno quando esse usano il termine ‘collaborazioniste’ per delegittimare le proprie avversarie: la Butler rivolge la medesima accusa alle femministe spregiativamente appellate come Terf, ovvero quelle secondo cui una donna è e rimane una donna, senza slanci pindarici performativi di identificazione. Alleate dei fascisti, della destra, del capitalismo, queste donne che non accettano l’idea che anche un uomo biologico che si sente donna possa avere le mestruazioni vanno abbattute.
La Butler poi dimostra una accezione totalitaria del termine ‘neutralità’; autentico feticcio tanto delle teorie critiche di genere quanto dell’intersezionalità, la neutralità dovrebbe rappresentare uno spazio libero e sicuro, nel linguaggio, nella prassi, nella azione politica, al fine di superare le scorie del patriarcato. In realtà, la neutralità butleriana finisce per sposare una vocazione assoluta che per affermare se stessa implica la eradicazione di qualunque alternativa e di qualunque libertà: tutto ciò che non rientra nella sfera di questa neutralità presunta è da considerarsi nemico. La donna che afferma se stessa come donna, rivendicando la neutralità biologica della scienza, è una fascista da combattere.
Judith, l’anti-Trickster
Ma cosa vende la Butler, a parte se stessa? Sovversione del genere, in primo luogo. La sovversione del genere, concetto tanto caro alla Butler, e che in fondo lei ha ornato preziosamente con filosofia, antropologia, psicologia, nei fatti pescandola in quel gorgo di broda nera che già si agitava nei sobborghi lesbo-BDSM alla Pat Califia, opera però curiosamente come normalizzazione della autentica sovversione, sterilizzando qualunque impulso autenticamente dissonante rispetto la pretesa normatività del contingente. Non per caso, l’iper-normativismo del post-strutturalismo e del costruttivismo è esso stesso flusso di normalizzazione.
La sovversione butleriana è la totale non consapevolezza, per capovolgimento, dell’ordine attraverso il caos e dell’equilibrio mediante sconvolgimento che in certe tradizioni filosofico-religiose sono importati da figure come il Trickster, il Dio Briccone. Renè Girard, come pure Jung, Radin e Kerenyi, a questa peculiare figura hanno dedicato delle meravigliose pagine che spiegano meglio di tanti giri di parole quanto fallace possa essere la ‘sovversione’ predicata da una come la Butler. Scrive Girard ne ‘Il capro espiatorio’ a proposito del Trickster, “è l’apprendista stregone che appicca il fuoco al mondo accendendo una fiamma minuscola, e che spandendo urina inonda tutta la terra’.
Ecco, la Butler si ferma a questo primo, imberbe stadio, una sovversione posticcia, senza far conseguire la logica conseguenza propositiva. Perché, prosegue infatti Girard, il Trickster col suo caos ‘giustifica tutti gli interventi correttivi e, come sempre, è proprio in virtù di questi che egli si trasforma in benefattore’, rinserrando i vincoli di comunità davanti il perturbante minaccioso. Perfetto specchio della escludente, iper-identitaria e statica filosofia della Butler che non si rende nemmeno conto di essere intrinsecamente reazionaria e, soprattutto, autoritaria.