Arcipelago Gulag, 50 anni dopo: quando Solzenicyn era una spina nel fianco per la sinistra italiana

20 Mag 2024 11:35 - di Mario Bozzi Sentieri

Cinquant’anni fa, esattamente il 25 maggio 1974, usciva in Italia, presso Arnoldo Mondadori Editore,  Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn. L’autore, Premio Nobel (1970) per la letteratura, era stato espulso da qualche mese dall’Urss, con decreto del Soviet Supremo.

Esule in Patria, dopo essere stato condannato, nel 1945,  a otto anni di lavori forzati in Siberia e tre di confino, Solzenicyn era diventato il simbolo ed il testimone vivente del sistema concentrazionario sovietico, il quale aveva nei GULag (Amministrazione generale dei lager) la spietata ed efficiente macchina repressiva per milioni di “dissidenti”. Il libro di Solzenicyn ne divenne l’affresco drammatico, ben visibile per chi avesse voluto farsene carico, sfuggendo alla propaganda d’Oltrecortina e a quella dei suoi servi occidentali. “Un uomo solo non avrebbe potuto creare questo libro” avvertiva l’autore fin dalle prime pagine, precisando che erano state 227 testimonianze (documenti, ricordi e lettere) di ex “abitanti” dell’Arcipelago Gulag a fornirgli il materiale di base per il suo lavoro: “un monumento eretto da amici in memoria di tutti i martoriati e uccisi”, implacabile “j’accuse” corale contro la pratica del terrorismo di massa, tra il 1918 ed il 1956, dall’ascesa di Lenin, agli anni del potere di Stalin ed oltre.

L’opera di Solženicyn unisce i tratti caratteristici dell’autobiografia, della ricerca storiografica e della critica incessante verso il potere sovietico, descrivendo minuziosamente, attraverso anche numerose testimonianze dei superstiti, il percorso carcerario dall’istruttoria ai lager speciali, dall’arresto causato da una delazione fino al termine della pena.

Una denuncia così chiara e diretta non solo rafforzò l’impegno di quanti avevano fatto della lotta anticomunista la propria bandiera ma  fece anche  uscire allo scoperto i “complici” di quel Sistema, frutto di un’ideologia sanguinaria a cui si abbeverarono, nel nostro Occidente, larghe masse popolari, manipolate da una élite intellettuale, culturalmente egemone. Ne è  una prova la  campagna di  disinformatia contro il  libro di   Solzenicyn, costretto a subire, in Italia, i silenzi e le falsificazioni di larga parte del mondo culturale, orientato a sinistra. Scarse furono le recensioni sui giornali. Nette le “stroncature”.

La stessa Mondadori non preparò l’uscita del libro con un adeguato battage pubblicitario,  fece anzi precedere l’uscita dell’Arcipelago da un libro di Oriana Fallaci, che oscurò quasi completamente l’opera del molto meno noto scrittore russo. L’unica recensione di rilievo sui quotidiani fu quella di Pietro Citati sul “Corriere della Sera”, del 16 giugno 1974, che però lo considerò solamente un memoriale di un prigioniero scampato a una più dura sorte.

Sul “Mondo”, Carlo Cassola scrisse che Solzenicyn era “un retore declamatorio che non vale niente come scrittore”. Umberto Eco, nascosto dietro lo  pseudonimo di “Dedalus”,  sul “Manifesto”,  arrivò a scrivere: “Solzenicyn è un Dostoevskij da strapazzo”. Non fu da meno  Italo Calvino che accusò Solzenicyn per la sua religiosità slavofila.

Alberto Moravia scrisse su “L’Espresso”: “Ci dispiace per Solgenitsin (sic), che è un nazionalista slavofilo della più  bell’acqua, ma gli orrori da lui giustamente denunziati sembrano essere stati originati da certi caratteri storici del suo paese piuttosto che dal socialismo, il quale pur con varie durezze, è stato una cosa in Russia e un’altra negli altri paesi comunisti”.

Anche Giorgio Napolitano, allora responsabile per la cultura del Pci, non fu da meno, condannando in un articolo sul settimanale “Rinascita” le prese di posizione di Aleksandr Solženicyn sui Gulag. Lo scrittore russo era colpevole di “avere accumulato cospicue somme nelle banche svizzere, grazie ai diritti di autore” e di avere “assunto un atteggiamento di sfida allo Stato sovietico e alle sue leggi”.

Giovanni Giudici, poeta e traduttore di Puskin confesserà: “La scomunica del ‘Paese fratello’ ce lo rese sospetto, attenuò l’interesse per quella terribile verità che Solzenicyn portava scritta sulle proprie pagine e sulla propria pelle”.

Irina Alberti, amica e traduttrice di Solzenicyn, scriverà che in Italia su di lui si riversarono fiumi di calunnie e che Arcipelago Gulag, “scritto solo di notte, al chiaro di luna di una casupola abbandonata in riva al mare estone, d’inverno, senza mai accendere la stufa perché nessuno si accorgesse che c’era qualcuno in quel luogo considerato disabitato”, all’inizio venne di fatto boicottato.

Non mancarono tuttavia esempi  di dissenso, rispetto alla linea del Pcus, fatta propria dagli intellettuali cresciuti sotto la cappa del Pci.

Per “La Voce Letteraria” la verità sui Gulag costituiva una condanna senza appello all’ideologia comunista, in quanto “l’inferno dei campi di internamento sovietico” era la sola conseguenza possibile di qualsiasi rivoluzione di stampo marxista. “Civiltà Cattolica” pose l’accento sul messaggio spirituale di Solzenicyn, mettendo in evidenza l’impossibilità di realizzazione dell’ideale umano cristiano dentro le strutture socio-economiche sovietiche.

Del linciaggio presero atto, insieme con pochissimi altri, per contrastarlo, lo slavista Vittorio Strada ed il giornalista Enzo Bettiza. Questi denunciò, senza mezzi termini, “la vergognosa offensiva di vasta parte della cultura italiana”. “Solzenicyn non destò grande rumore” –  disse scoraggiato Eugenio Montale, uno dei pochi che si prodigò per invitarlo in Italia.
Roberto Calasso ne L’impronta dell’editore così sintetizzò  il clima: “Con maschia fermezza Lucio Lombardo Radice esortava a stringere le file contro i calunniatori dell’Urss (tutti ‘riformisti’, parola che oggi chiunque agogna ad attribuirsi e allora suonava come grave oltraggio). Erano ancora i tempi in cui il nome di Orwell veniva pronunciato con un senso di ribrezzo. Dopo tutto si trattava di un reprobo”.

Una rassegna, quella degli intellettuali allineati “a sinistra”, che non fa tuttora onore agli autori citati,  riconsegnandoci, insieme a quella dell’autore di Arcipelago Gulag, la memoria di una cultura a tal punto ideologizzata da perdere di vista le ragioni autentiche e profonde di una libertà negata. L’opera di Solzenicyn, a tanti anni di distanza, resta per il valore universale della sua denuncia, declinata, “poeticamente”, attraverso la formula – evidenziata nel sottotitolo – del “saggio di inchiesta narrativa”, dove storie vissute si intersecano con la capacità narrativa dell’autore ed una aspettativa di verità su quanto avveniva nell’Urss, “necessaria – come ebbe a dire una grande figura del dissenso, lo scienziato Andrej Sacharov – per tutti gli uomini della terra”. Una necessità ancora oggi rilevante.

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