“Gramsci è vivo” e lotta insieme a noi. Per l’egemonia? Di più: per essere i pontefici di un’età migliore. Parola di Alessandro Giuli
Alessandro Giuli – scrittore, giornalista e presidente della Fondazione MAXXI – da pochi in giorni è in libreria con il suo ultimo pamphlet che fin dal titolo è tutto un programma: Gramsci è vivo. Sillabario per un’egemonia contemporanea (Rizzoli, pp. 160, €15). Con il Secolo d’Italia ricostruisce i come e i perché di un’iniziazione comunitaria: il battesimo del fuoco – il salto nel cerchio della complessità – per gli uomini e le donne della destra alle prese con il governo della cultura. Con un obiettivo su tutti: fare il bene superiore della Repubblica. E un l’appello alla sinistra: abbattete, con noi, la “Ztl” che è in voi.
Una certa vulgata vuole che sia in atto un’occupazione di potere da parte della destra: anche nel sistema culturale.
La “certa vulgata” non soltanto non è certa, è insincera: per la maggior parte dei casi, nell’ambito delle decisioni afferenti al Ministero della Cultura, si è trattato di un ricambio fisiologico all’interno delle nomenclature apicali giunte a naturale scadenza. Zero epurazioni. Nel merito, poi, basterebbe citare la nomina del meritevolissimo Simone Verde alla direzione delle Gallerie degli Uffizi: non mi risulta sia un intellettuale di destra; è bravo punto e basta. Idem per Renata Cristina Mazzantini alla Galleria nazionale d’Arte moderna a Roma, altra figura di grande spessore. Potrei proseguire, tuttavia mi è sufficiente ricordare che ciascuno di noi, i neo-nominati, verrà giudicato sulla base di parametri oggettivi e indicatori facilmente rilevabili: numero di visitatori, conti in ordine, qualità del così detto public program, capacità di protezione dai rischi corruttivi, adesione ai princìpi del pluralismo e dell’accessibilità.
Il suo testo calza a pennello e sembra proprio voler far vibrare corde tesissime: una riguarda la volontà di predisporre un’egemonia “da destra” e l’appropriazione indebita del nume tutelare di chi ha codificato la prassi dell’egemonia culturale nel ‘900, Antonio Gramsci. Di fatto tutto ciò che da certa sinistra viene rimproverato o rinfacciato a quelli come lei. Che fa, provoca?
Provoco, ma senza zelo. Di Gramsci, oltre all’esemplare vicenda biografica, mi interessa molto il suo valore universale d’intellettuale italiano. Un uomo di sinistra che ha destrutturato il dogmatismo marxista-leninista mettendo al centro della propria visione la cultura, prima ancora che i rapporti di produzione. Ciò detto, la mia non è una manovra “acquisitiva”: le categorie sociologiche gramsciane, così come il suo obiettivo rivoluzionario di conio comunista, sono superate e storicizzate. L’onore che si appresta a tributargli il Ministro Sangiuliano, sollecitando una mostra già prevista per il 2025, è la prova di un’apertura intellettuale e di una liberalità tipiche di una destra consapevole, avveduta e avanzata.
In realtà in questo libro non c’è alcuna resa dei conti con i liberal e i progressisti. Al contrario, è una grande sollecitazione alla destra. Prima di tutto una sorta di «non rinnegare e non restaurare» l’evasione metapolitica della “Contea” tolkieniana.
Il mio libro è sopra tutto un diario di bordo nel quale, dopo un anno e mezzo alla guida del MAXXI, cerco di mostrare a me stesso e alla “mia” destra che non abbiamo alcun conto da regolare. Liberal e progressisti possono stare tranquilli: il pluralismo delle idee è nel Dna di chi percepisce il proprio ruolo come una missione istituzionale e non come una rendita dovuta per diritto divino, come a volte è accaduto in passato nella gestione di chi ci ha preceduto. Quanto alle radici metapolitiche, c’è parecchio da non rinnegare – la visione spirituale dell’esistenza, il senso classico del sacro, la profondità della Kulturkritik occidentale – e poco (ma un poco che pesa) da non restaurare: la nostalgia dei paradisi artificiali anti-sistemici e populistici, vale a dire le spoglie ormai deposte d’una salutare crisi di rigetto per l’ubriacatura globalista acritica e indifferenziata che ha sedotto (e presto abbandonato, con ferite profondissime) le società capitalistiche occidentali entrate nel nuovo millennio con una malriposta spensieratezza.
In secondo luogo auspica che un intero mondo entri in una fase “adulta”. Che per lei si traduce in costituzionale. Qui mi preme ricordare, però, che è stata la destra a difendere strenuamente fra il 2011 e il 2022 il dispositivo scolpito nell’articolo 1: la sovranità popolare.
In realtà io rilevo che la destra autentica – poiché di destre sedicenti ce n’è più d’una – è già entrata nell’età adulta. Ora auspico un ingresso nell’età matura, anzi sostengo che tale ingresso è già nell’ordine delle cose e bisogna rivendicarlo con forza e dimostrarsene all’altezza. Ciò che sembra accadere, se guardiamo bene, è già accaduto. Dunque diciamolo e anche con una punta di fierezza. Senza albagia e sentendoci ogni giorno sotto giudizio, a cominciare da quello del nostro foro interiore: questa è la prima forma dell’egemonia. Quanto alla Costituzione del 1948, la sua osservazione è pertinente: ne siamo figli legittimi e proprio l’articolo 1 deve indurre la destra a farsene carico nella sua ricca totalità (pensiamo all’articolo 9!), sia pure con la legittima intenzione di adeguare (non snaturare, adeguare) la Carta fondamentale ad alcune esigenze del momento storico.
L’invito insomma è quello di entrare in quell’età dove o ci si fa sistema – nell’accezione greca che lei riporta, come necessità di comporre una cultura per la Nazione – o «abbiamo solo scherzato».
Esattamente. Sistema significa “stare insieme”, rappresentare l’essere profondo della Nazione e mediarne le istanze in una cornice condivisa. Senza nulla togliere alle differenze politiche. Ciascuno con le proprie radici, ma riconoscendosi reciprocamente dalle cime più alte. Questa è una attitudine molto di destra, secondo me.
Il punto è che a destra è giunta prima la vittoria delle Politiche che quella sulla narrazione… Quindi – e qui indosso i panni comodi dello scettico – a che serve la cultura?
La cultura parla una lingua universale di dialogo e di civiltà, non è mai dottrina claustrofobica e autoreferenziale. La sinistra ha perduto il contatto con sé stessa e con la società contemporanea proprio nel momento in cui ha smarrito tale evidenza. La destra, oggi, ha un’occasione irripetibile: restare sé stessa, autorappresentarsi senza complessi né infingimenti, e al tempo stesso accompagnare perfino la sinistra smarrita in quel luogo ideale in cui diventa possibile un racconto unitario dell’identità italiana. Con tutte le sue sfumature e le sue contraddizioni dialettiche.
Giuli, il patto per scongiurare lo sbarco in Italia della “cultural war” americana si fa in due. Peccato che una sinistra in stato confusionale si sia abbandonata alla furia talebana e anti-umanistica della visione woke…
Una metà del lavoro sarebbe compiuta se la sinistra comprendesse che la trappola identitaria woke conduce all’autofagia. Il tentativo è necessario perché una destra senza sinistra non è pensabile se non a patto di dialettizzarsi in forme inedite, come Bottai segnalò vanamente a Mussolini e come più di recente Mino Martinazzoli ricordò alla sua Dc morente; ma l’esito non è scontato.
Per non parlare della coperta di Linus dell’antifascismo.
C’è antifascismo e antifascismo. Quello costituzionale è implicito nei princìpi della Carta alla quale ogni cittadino, e dunque ogni partito, è chiamato ad aderire. Non vedo problemi a riconoscerlo. Quello dei nostalgici sovietizzanti, alla perenne ricerca dell’Urfascismus teorizzato da Umberto Eco (plagiando bene Carlo Levi) è destinato a estinguersi nella misura in cui non troverà più attriti nostalgici di segno opposto, figure caricaturali e pulsioni marginali di cui la nuova classe dirigente farà volentieri a meno.
Si può essere democratici e costituzionali senza essere antifascisti?
No, ma questo perché il monopolio morale dell’antifascismo non può e non deve appartenere alla variante escludente di cui sopra, quella ammalata di sovietismi inconsci. L’antifascismo liberale di Lauro De Bosis e quello socialdemocratico di Leone Caetani non hanno alcunché di paragonabile con le manifestazioni violente dei centri sociali o con i languori delle vedove inconsolabili di un eterno Farinacci immaginario contro il quale armare un mitra o una chiave inglese.
Non trova che da questo punto di vista siamo dinanzi a una clamorosa regressione dell’elaborazione goscista? Da Luciano Violante a Tomaso Montanari…
A suo tempo Violante ha aperto la via aurea per una pacificazione tra chi perse combattendo dalla parte del Torto, il clerico-fascismo, e chi vinse avendo Ragione ma non tutte le ragioni. Montanari è un intellettuale di valore, ma spesso, ahilui, ottenebrato da fantasticherie fuori dal tempo.
Fra un anno tornerà anche il 25 aprile…
E noi lo festeggeremo. A debita distanza da ogni ipocrisia, dagli estremismi e dalle compagnie indesiderate. Consapevoli che il 2 giugno, festa repubblicana, almeno per ora ha oggettivamente più chance di conciliare l’idem sentire nazionale.
Quell’Italia maggioritaria che non si sente – politicamente o oggi anche antropologicamente – di sinistra da trent’anni coltiva il diritto di diventare racconto ufficiale. Scorrendo le pagine del libro ci si imbatte in Bobbio e negli azionisti più che in Gentile e D’Annunzio. La nuova sintesi parte da qui?
Se nel mio libro posso citare gli aspetti più attuali di Norberto Bobbio e Guido Calogero è appunto perché c’è stato Giovanni Gentile, che degli azionisti fu maestro e protettore forse malgré soi ma senza dubbio alcuno. E se in “Gramsci è vivo” posso prendermi la libertà di praticare certe scorribande culturali è appunto perché la lezione libertaria dannunziana introiettata mi consente di alloggiare “a sinistra nella destra” senza immiserire il messaggio come fosse un occhiolino corrivo all’establishment goscista. Al contrario, in una battuta: tengo molto alla mia cattiva reputazione. E sì, nondimeno, mi piace la sintesi.
Giorgia Meloni è l’esempio più avanzato dell’elaborazione politica di un mondo e di un ambiente che lei conosce bene. Immagino che non sia stupito, dunque, che proprio la premier sia oggi la vera novità delle prossime elezioni Europee. Con un’idea tanto forte quanto antica: l’Europa aggregazione degli spiriti nazionali d’Europa.
In Giorgia Meloni ho colto in tempo reale la nascita d’una leadership dalla statura internazionale. E non mi fa velo l’affetto prepolitico che nutro nei suoi confronti. Sono realisticamente convinto che la sua storia eccezionale possa e debba ancora innalzarsi verso grandi traguardi, che la sua autenticità sia destinata a prevalere sui richiami della foresta primonovecentesca che certuni le infliggono: la sua foresta è appunto l’Europa, Patria delle Patrie, scolpita dal diritto della civiltà romana e ingentilita dallo stilnovo del dantesco “giardino de lo imperio”: l’Italia.
I contrafforti di questo nuovo “pensare italiano”, nel suo racconto, sono tutti legati ai topoi dell’antica Roma: le radici, i confini, l’identità, il sacro. L’imperium. Che fare, allora, del “vallo” eretto da chi sta dentro la Ztl?
I muri sono destinati a cadere, per legge di natura, travolgendo gli inquilini del privilegio che vi si addossano disperati. I ponti invece no, perché sono la proiezione materiale e immateriale di chi vuole irradiare la luce del sapere, il piacere dell’intelligenza, porgendo una mano “laica” e animata dalla volontà orientata al bene superiore della Repubblica. Chi rifiuta quella mano vale decisamente meno di chi ha appena cominciato a tenderla. Noi siamo vocati a essere i pontefici di un’età migliore.