Le vittime delle atroci “marocchinate” meritano la memoria collettiva. Se non ora, quando?
Una macchina da presa si ferma sul volto terrorizzato della dodicenne Rosetta, sullo sfondo della Seconda guerra mondiale. In una chiesa diroccata i suoi occhi contengono il dolore del mondo: doppio, in quanto donna e in quanto sconfitta. Una delle scene più rappresentative del film La Ciociara – pellicola neorealista del 1960 di Vittorio de Sica –, narra tutto l’orrore della guerra e degli stupri compiuti da alcune truppe Alleate nel sud e nel centro Italia, avvenute dopo lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia e la loro successiva risalita della penisola con lo sfondamento del fronte di Cassino.
Gli stupri e saccheggi compiuti verso donne italiane del centro e sud Italia – soprattutto nelle campagne e ai danni di vittime povere –, vengono comunemente definiti “marocchinate”, dal nome dei soldati irregolari dell’esercito francese, provenienti in gran parte dai Monti dell’Atlante e del Rif. I “goumiers” erano in gran parte analfabeti, abituati alla vita rude montanara e per ciò destinati alle missioni pericolose: secondo la storiografia ufficiale le violenze di cui furono colpevoli iniziarono in maniera sporadica, alcuni episodi singoli furono registrati nella zona del messinese, altri in Campania, ma il grosso numero si registrò nel maggio del 1944. A partire dal 15, infatti, le truppe vittoriose si abbandonarono a giorni di barbarie, soprattutto in Ciociaria.
La politica e la storiografia hanno spinto per anni questi eventi sotto una coltre di silenzio, soprattutto per l’imbarazzo di fare i conti con un’immagine dei “liberatori” che non poteva (o non voleva) essere scalfita. Negli ultimi anni le violenze dei goumiers sono state raccontate dall’Associazione nazionale vittime delle marocchinate, il cui presidente Emiliano Ciotti ha posto in essere azioni locali e nazionali di informazione storica e culturale sulle vicende di quegli anni.
Le atrocità commesse durante le guerre dagli eserciti possono essere interpretate, secondo la prospettiva del sociologo Jeffrey Alexander, come una performance; nel senso teatrale del termine, cioè una “rappresentazione”. Lo stupro di massa durante le guerre è una forma di atrocità che assume un significato inserito nella struttura culturale dei popoli così come dai popoli è rimandata e interpretata nella memoria collettiva. Un trauma culturale si costruisce quando i popoli sentono di aver preso parte ad eventi che hanno lasciato un marchio indelebile nella loro storia collettiva, tanto da modificarne l’identità. In altre parole, lo stupro di massa bellico è trauma perché colpisce “il sacro”, non in quanto principio soprannaturale ma come nucleo indelebile e non negoziabile dell’identità collettiva.
Il fatto che un evento storiografico sia poco comunicato crea una difficoltà della memoria a saldarsi, il rimosso fluttua ai margini della coscienza come un ospite indesiderato e trova posto nei pensieri senza nome. Lo stupro bellico fa parte di quasi tutti i conflitti, non è un semplice “bottino di guerra” ma ha una precisa ragione sociologica: l’idea primigenia di annichilimento dell’avversario attraverso la contaminazione delle linee di successione di una generazione alla successiva.
Simbolicamente il corpo delle donne diventa il teatro della guerra, metafora sporca e dilaniata della Nazione. Dopo le violenze delle marocchinate molte donne abortirono spontaneamente, alcuni bambini figli di stupri vennero accolti nell’orfanotrofio di Veroli (FR), altre donne si uccisero, straziate dal dolore, la stessa Benedetta del film di De Sica finì in un vortice di autodistruzione e nichilismo. Benedetta e le altre meritano la Memoria, la narrazione collettiva dei colpi della storia, unico filo delle maglie sdrucite della comunità, per restituire dignità ai vinti e ricucire i traumi collettivi. Se non ora, quando?