L’editoriale. “O la va o la spacca” è un manifesto: è tempo di riforme, non di status quo

25 Mag 2024 10:09 - di Antonio Rapisarda

«O la va o la spacca» è il manifesto di un’intera stagione. A rivendicarlo ieri, nel colloquio con Maria Latella al Festival dell’Economia di Trento, è stata Giorgia Meloni: a proposito della riforma costituzionale del premierato e dell’eventuale e probabile referendum confermativo. Ma non solo. La scommessa della premier, a ben vedere, è esistenziale: va oltre il destino della pur importante «madre di tutte le riforme». È legata all’intero impianto del suo governo, alla proposta che ha portato – per la prima volta nella storia repubblicana – la destra politica e lei stessa a guidare in prima persona la Nazione: un chiaro investimento popolare sulla nuova rivoluzione “conservatrice”, sul riformismo nazionale, mosso da un istinto opposto e contrario a quello dello status quo e dell’autoconservazione.

A chiarirlo, senza mezzi termini, è stata la premier stessa: «Nessuno mi chieda di scaldare la sedia o di stare qui a sopravvivere, non sarei la persona giusta per ricoprire questo incarico». Un messaggio chiaro rivolto a chi tenta e spera, più in generale e fin dal giorno dell’insediamento, di “normalizzare” il percorso suo e del governo che presiede: in Italia e adesso anche in Europa. Quello di Meloni allora è un messaggio, prima di tutto, a chi consiglia di non insistere sul cambiamento dell’architettura istituzionale: non parliamo certo di custodi del mos maiorum ma di prosaici sostenitori del primato del Palazzo. Coloro che dietro la maschera della prudenza si augurano soltanto che “adda passà a nuttata”: che il destra-centro, insomma, sia solo un incidente della Storia. Stampelle perfette per chi pensa che la sovranità popolare, in fondo, sia un po’ troppo per gli italiani e che il Pd abbia il diritto divino di tornare a governare – sotto il tetto dei governi tecnici – senza vincere un’elezione.

Variazione sul tema solo quelli che si augurano che Meloni & co accettino alla fine di sedersi a Bruxelles come junior partner accanto ai socialisti e verdi nella riedizione della maggioranza arcobaleno. Qual è l’esca utilizzata dai “suggeritori” interessati? «È l’unico modo di contare qualcosa in Europa». Peccato per loro che l’Italia, in questo anno e mezzo, abbia contato parecchio nei processi decisionali comunitari (Consiglio europeo su tutti) esattamente perché in totale distonia con l’agenda Timmermans, il rigorismo targato Scholz e con una certa mollezza valoriale del Ppe. Proprio per questo la leader dei Conservatori ha ribadito che non ha alcuna intenzione di giocarsi quest’occasione storica – le prime elezioni “politiche” di un’Europa chiamata a (ri)dotarsi di una propria autonomia strategica, a riscoprire la lezione e lo spirito dei trattati costitutivi – con coloro che «non hanno una visione né una strategia». «Scaldare la sedia», non incidere, lasciare che l’Ue soffochi fra arbitrio regolatore, immigrazione massiva e dipendenza dalla Cina, con tutta evidenza non è un’opzione minimamente presa in considerazione.

Il meccanismo, vale per il governo italiano e per quello europeo, è lo stesso. Il mandato che la premier intende interpretare è quello che contempla la necessità di innovare le istituzioni degli italiani e reinnestare di realismo quelle europee. Per decenni, invece, è passata l’idea (figlia di certa cultura “azionista”) che occorresse cambiare gli italiani a misura di certe istituzioni. E che Bruxelles, una volta implosa l’Unione sovietica, fosse la leva perfetta per saldare tecnocrazia e sinistra e completare ciò che in patria non si era ancora riusciti a fare. Ecco, dalla destra politica gli elettori si aspettano l’esatto opposto: la liberazione dagli ingegneri sociali, dagli adoratori dello status quo e dai cultori dei privilegi(ati). Non possono esistere mediazioni su questo. La prima a sostenerlo, non a caso, è Giorgia Meloni: o la va o la spacca.

 

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