Transizione ecologica? Bonificare per la sicurezza e la prosperità del territorio
Il territorio italiano è caratterizzato da un elevato grado di fragilità naturale; il dissesto idrogeologico è un problema antico e non solo un prodotto della modernità: frane e alluvioni, anche catastrofiche, si sono sempre verificate in Italia sin dalle epoche più remote. Nel 2021 il 94% dei comuni italiani è a rischio dissesto , oltre 1,3 milioni di abitanti vivono in zone a rischio frane, mentre sono circa 7 milioni gli abitanti residenti in aree a rischio alluvione.
Solo esattamente un anno fa l’Emilia-Romagna è stata colpita tra l’1 e il 3 maggio e tra il 16 e il 18 maggio 2023 da allagamenti, esondazioni, frane che hanno provocato la morte di 17 persone. Si sono registrati picchi di pioggia anche superiori a 600 mm in appena 48 ore, 23 corsi d’acqua sono esondati per un volume di 350 milioni di metri cubi. La grande violenta alluvione ha devastato 91 comuni nelle province di Bologna, Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini, Modena, Reggio Emilia e parte di Marche e Toscana, con danni stimati intorno ai 10 miliardi.
La furia delle acque non è purtroppo un isolato evento eccezionale, dovuto alle conseguenze del cambiamento climatico, ma appare come una costante nella storia della nostra terra. Secondo un recente studio del CNR, in Italia frane e inondazioni sono frequenti e causano danni disastrosi alle strutture e infrastrutture nonché vittime, feriti e sfollati ogni anno. Dal 2007 al 2021 le persone che hanno perso la vita a causa di tali eventi sono complessivamente 336, di cui 188 per le inondazioni e 148 per le frane.
Un quadro di dissesto strutturale che nella sua sua storica gravità, è frutto anzitutto della costituzione geofisica del territorio italiano, a prescindere dalle attività antropiche e dalle propagande colpevoliste. L’Italia è un paese geologicamente giovane, ed è quindi ancora esposto a fenomeni di orogenesi; la natura litologica delle rocce è per due terzi sedimentaria, cioè erodibile abbastanza facilmente e rapidamente. A questo fattore naturale di rischio geologico bisogna poi aggiungere gli andamenti pluviometrici: il clima è caratterizzato da estati calde e secche e precipitazioni concentrate a inizio primavera e a fine autunno. Piogge brevi e violente accompagnate da lunghi periodi di siccità, che ovviamente determina un elevato livello di minaccia idrogeologica. Queste caratteristiche climatiche sono ovviamente note da sempre. Nel 1870 il naturalista e botanico Giuseppe Pasquale scriveva: “La distribuzione della pioggia in queste province è così incostante in tutti i mesi, e così diseguale nelle sue cadute, che spessissimo cade fuori tempo, e, quando pur fosse opportuna ed a tempo cade in acquazzoni, si che il danno superi l’utile”. Sempre Pasquale, in un suo lavoro di poco precedente notava la diffusa presenza di “torrenti rapidissimi, i quali in buona parte precipitano da cateratta in cateratta fino al mare … e scendendo formano colmate e sollevamenti di terreno, portando devastazioni alle campagne ed abitati vicini”.
Lo stato ambientale italiano appare definito quindi complessivamente da un elevato grado “naturale” di rischio idrogeologico, anche aggravato dagli effetti del cambiamento climatico. Per la prima volta nel 2022 l’Italia ha raggiunto una temperatura media di 14 °C, la più alta di sempre: è stato anche l’anno della più grave siccità degli ultimi 500 anni in Europa, che per l’Italia si è tradotto in un crollo delle precipitazioni medie, in un solo anno, di oltre il 20% rispetto alla media del trentennio 1990-2020. Oltre alla siccità, l’aggravarsi della crisi climatica sta causando eventi estremi sempre più frequenti e dannosi. Nel 2022 abbiamo raggiunto un nuovo record: sono stati oltre 3 mila gli eventi climatici estremi registrati in Italia in un solo anno, il numero più alto degli ultimi 15 anni.
L’analisi del rischio? Non è così “scontata”
Tuttavia, considerata la lunga serie storica di frane e alluvioni appare semplicistico, riduttivo e fuorviante, nonostante alcune dominanti retoriche ambientaliste, attribuire, per una predisposizione atavica al senso di colpa, soprattutto a cause antropiche le responsabilità dei fenomeni del dissesto; più corretto logicamente sarebbe attribuire a cause antropiche l’inefficacia delle politiche per la mitigazione del rischio e per ridurre al minimo l’impatto dei furiosi e nefasti eventi naturali sull’uomo e sulle aree dove egli vive. La colpa umana è proprio nel non aver fatto, nell’aver si pensato, e con un’enorme struttura burocratica, alle opere di contenimento e mitigazione del rischio necessarie alla sicurezza del territorio, senza però realizzarle per tempo; nel vivere programmando un futuro di regole su regole anziché di opere pubbliche, nell’ aver governato con incertezza il necessario e permanente processo di bonifica e messa in sicurezza del territorio italiano e dei suoi cittadini.
Allo stesso tempo però non sembra sensato porre unicamente l’attenzione alla costituzione geologica dei terreni o ai livelli pluviometrici, limitandoli così a una serie di fatalità, ma occorre comprendere senza pregiudizio ideologico se, e in che modo, il processo di modernizzazione ha alterato i quadri ambientali. E’ innegabile che l’avanzare di uomini ed economie ha modificato gli assetti territoriali, specialmente in Italia nell’era del boom economico, per un incessante e spesso incontrollato disboscamento, consumo di suolo e abuso della risorsa idrica: evidentemente da molti anni senza parallele, integrate ed efficaci azioni di controllo, mitigazione e bonifica.
Ma se in Italia sin dalla metà del secolo scorso il consistente incremento demografico, il frenetico espandersi dell’urbanizzazione e il turbolento sviluppo economico hanno determinato profonde trasformazioni dell’uso del territorio, allo stesso modo, e quasi per paradosso, nei tempi attuali caratterizzati dalla crisi demografica e soprattutto dal fenomeno delle cosiddette aree interne fragili, ovvero dall’esodo di gran parte della popolazione verso le aree urbane, è proprio la perdita delle attività antropiche nelle tante aree del paese abbandonate a costituire un ulteriore fattore di rischio.
Il processo di spopolamento ha avuto ed ha un impatto devastante sul fronte ambientale: la scomparsa ad esempio di intere comunità insediate tradizionalmente in area montana si traduce in una minore manutenzione del territorio, per la fine improvvisa di una serie di attività – opere di sostegno, incanalamento delle acque meteoriche, gradonamenti, pulizia del sottobosco e delle aree golenali – che le popolazioni locali ponevano in essere per prevenire l’erosione del suolo ed i fenomeni di dissesto. Attività appunto quasi d’un tratto abbandonate, senza che peraltro a questi abbandoni sia poi subentrata un’efficace politica pubblica sostitutiva.
I terribili eventi catastrofici che si sono avuti in tutti questi decenni, i morti e le distruzioni che continuano anche ai giorni nostri, mostrano con tutta evidenza la grande priorità dei principi della sostenibilità nel nostro paese: la bonifica e la messa in sicurezza del territorio, superando la stucchevole retorica green dei monopattini elettrici e l’enorme macchina burocratica multilivello.
La bonifica per la messa in sicurezza del territorio: una priorità. Ecco perché
Nell’era della transizione ecologica e della sostenibilità appare evidente la primaria e urgente necessità della messa in sicurezza dei territorio. E certamente il nostro paese è stato all’avanguardia per la realizzazione di un efficace sistema normativo e operativo per la bonifica e il contenimento del dissesto idrogeologico. Infatti già 90 anni fa, a dimostrazione di quanto il tema del dissesto idrogeologico sia radicato nel tempo, con la legge Serpieri nel nostro paese si introduceva un puntuale e organico modello di governo per la messa in sicurezza e lo sviluppo sostenibile del territorio basato sul concetto, quanto mai attuale e di rinnovata vitale importanza, di bonifica integrale. Modello che può ancora dare interessanti stimoli di riflessione per una politica del territorio meno dipendente dallo stato di emergenza permanente.
La legge del 1933 arriva d’altra parte dopo un decennio di attività legislativa volta a definire i percorsi per la bonifica e la messa in sicurezza del territorio – a dimostrazione di quanto la problematica del dissesto fosse anche un secolo fa molto pressante – tra cui la legge del 24 dicembre 1928, contenente già i provvedimenti per la bonifica integrale, che contemplavano contributi del 75% per la costruzione degli acquedotti e delle altre opere necessarie al completamento della bonifica, e il Regio decreto 26 luglio 1929, contenente nuove disposizioni in materia di bonifica integrale, con i quali lo stato stanziava fondi pubblici per le opere di bonifica, ed istituiva a partire dal 1929 uno speciale sottosegretariato con competenze tecniche molto specifiche, affidato proprio alla direzione di Arrigo Serpieri.
La legge del 1933 introduce nell’ordinamento una profonda riforma per il governo del territorio attraverso un sistema organizzativo e operativo della bonifica fondato sulla nozione di bonifica integrale. “Possiamo oggi definire la bonifica integrale … come la coordinata attuazione di tutte le opere ed attività che occorrono per adattare la terra e le acque ad una più elevata produzione e convivenza rurali ” : compare dunque per la prima volta nell’ordinamento italiano un regime giuridico unitario per quell’insieme di interventi diretti alla “ conquista di un determinato territorio alla produzione”(Serpieri, 1948). Il concetto della bonifica integrale collega organicamente la bonifica montana con le opere idrauliche di pianura nel quadro di un intervento organico di natura economica e sociale, costituito da tutte quelle opere pubbliche e private aventi la comune finalità della difesa, tutela e valorizzazione del territorio (opere di sistemazione idraulica, opere di scolo, drenaggio, dighe di ritenuta, casse di espansione, opere di regolazione e utilizzazione delle acque a fini irrigui, strade, acquedotti e altre opere civili necessarie allo sviluppo del territorio).
Una visione d’insieme che appare immediatamente nel titolo I della legge: “Alla bonifica integrale si provvede per scopi di pubblico interesse, mediante opere di bonifica e di miglioramento fondiario. Le opere di bonifica sono quelle che si compiono in base ad un piano generale di lavori e di attività coordinate, con rilevanti vantaggi igienici, demografici, economici o sociali, in comprensori in cui ricadono laghi, stagni, paludi e terre paludose, o costituiti da territori montani dissestati nei riguardi idrogeologici e forestali, ovvero da territori estensivamente utilizzati per gravi cause d’ordine fisico e sociale, e suscettibili, rimosse queste, di una radicale trasformazione dell’ordinamento produttivo. ..”. E’ dunque sin dal primo articolo che si individuavano con chiarezza gli obiettivi “igienici, demografici, economici o sociali” della bonifica integrale, che nel discorso del dicembre 1934, in difesa del Disegno di legge su norme per assicurare l’integralità della bonifica, Serpieri rafforza col valore etico “non tanto e non solo economici, quanto sociali e morali della bonifica integrale”, e partecipativo, “per il ruolo innovativo e importante dei Consorzi di bonifica ed anche sulla necessità di avere il contributo fattivo dei proprietari, confermando però anche la necessità di interventi ed espropri in caso di inadempienze…”.
Il grande valore fondante della storica riforma del 1933 sta proprio nella capacità di sintetizzare fattori economici, sociali e ambientali, anticipando di decenni la teoria dello sviluppo sostenibile, e di definire un percorso di bonifica integrale adatto alle specificità di ogni singolo territorio, basato sulla stretta interazione tra pubblico e privato. La Legge Serpieri per la bonifica integrale definisce infatti un percorso chiaro per la realizzazione dell’obiettivo della bonifica e della messa in sicurezza del territorio, denotando un modernissimo pragmatismo: dal piano generale di bonifica alla definizione di un preciso ambito territoriale, individuato sulla base delle specifiche necessità del territorio e delle azioni da svolgere, che il legislatore del 1933 denomina comprensori; dalla definizione dell’insieme di opere e di interventi tra loro complementari e coordinati, per la difesa e sistemazione idraulica e per lo sviluppo economico e sociale, alla integrazione dell’azione pubblica con quella privata e al coordinamento dell’intervento dello Stato con quello dei privati; dalla partecipazione dei privati, finanziaria e gestionale, in una impresa pubblica, all’istituzione dei consorzi di bionica per realizzare il coordinamento sul piano operativo dell’azione pubblica con quella dei privati.
La legge Serpieri sulla bonifica integrale portò alla messa in atto di un programma imponente di lavori di opere pubbliche che investivano comprensori di bonifica estesi sulla metà del territorio nazionale: dalla bonifica igienica di risanamento, di riscatto delle terre dalle paludi e dalla malaria e di colonizzazione alla bonifica idraulica di difesa e di sistemazione dei terreni, alla bonifica economica e di valorizzazione, alla tutela e alla salvaguardia delle risorse ambientali. Nel 1934 la superficie soggetta a bonifica superò i 15 milioni di ettari, e non si trattava più solo di bonifica idraulica in piano, ma anche di sistemazioni nelle aree montane (per circa 7,5 milioni di ettari).
La validità della legge Serpieri trova conferma in epoca repubblicana, tanto che Giuseppe Medici, già Presidente dell’Associazione Nazionale Bonifiche ed Irrigazioni, nel 1967 scrisse nella prefazione a un libro sul bilancio storiografico delle bonifiche in Italia «Con la legge del 1933, il Paese è stato dotato di validi strumenti che le hanno permesso, dopo la seconda guerra mondiale, di guidare la ricostruzione e di continuare il processo di sistemazione idraulica del territorio e lo sviluppo dell’irrigazione. La legge di bonifica, pur concepita in un periodo storico nel quale era stata interrotta la vita democratica del Paese, doveva dimostrare la sua piena validità anche dopo la costituzione della Repubblica. Ed è stato proprio durante l’ultimo quarantennio che questa legge, che trovava nel Consorzio di bonifica il suo strumento esecutivo, ha dimostrato la fecondità del concetto fondamentale che la anima, secondo il quale soltanto con la collaborazione fra lo stato e i singoli imprenditori si può conseguire, con la realizzazione delle grandi opere, l’utilizzazione dei terreni guadagnati alla bonifica o sottoposti all’irrigazione ».
Nonostante il dibattito sul concetto di bonifica integrale sia ancora presente nella letteratura e nei convegni, nella maggior parte dei recenti provvedimenti nazionali e regionali relativi alle tematiche ambientali, si citano le leggi di riferimento, come la 215/33 o la 991/52, senza però citare la bonifica integrale. E sembra che non solo nella dialettica giuridica ma anche nella pratica abbia prevalso il concetto più moderato della bonifica di ripristino alla bonifica di trasformazione e alla integralità della opere.
Eppure il ritorno alla cultura della “bonifica integrale” sembrerebbe quanto mai urgente, anche considerando l’urgente ricerca di efficaci politiche per mitigare il dissesto idrogeologico e gli effetti nefasti del cambiamento climatico, e per contenere il gravissimo fenomeno dello spopolamento delle aree interne. Rispetto all’avanzata del dissesto idrogeologico gli interventi parziali hanno effetti parziali: si deve intervenire con una visione sistemica sugli interi bacini con le necessarie opere di bonifica montana per governare il deflusso delle acque, attivare i consorzi di bonifica, definire i piani forestali, coordinare le proprietà private e realizzare azioni concrete per rendere il territorio produttivo, sicuro e abitabile per le comunità che vivono le aree interne, invertendo l’esodo.
Rispetto al dissesto idrogeologico e al disastro ambientale occorre attivare la forza e lo spirito della bonifica integrale “per la conquista di un determinato territorio alla produzione” .
Docente di economia dell’ambiente e del territorio, Università Guglielmo Marconi
Membro del comitato scientifico del Pomos-Università La Sapienza
Socio e membro del comitato scientifico della Fondazione Sviluppo Sostenibile
Membro del comitato scientifico dell’Istituto Stato e Partecipazione