Il colloquio. Alla ricerca della sinistra (riformista) perduta: la requisitoria di Claudio Velardi

23 Giu 2024 7:00 - di Antonio Rapisarda

Si arrocca sui referendum invece di rilanciare. Non accetta la sfida della responsabilità sui territori. Né quella della democrazia decidente. Accetta di vegliare solo sui garantiti (e non sul garantismo) e sullo status quo. Non si schioda dalla Ztl e dagli esorcismi dell’antifascismo di maniera. Davanti a una sinistra così, e solo davanti a una sinistra ridotta così, Claudio Velardi – oggi direttore del Riformista, già storico consigliere politico di Massimo D’Alema e intellettuale che conosce perfettamente genesi e struttura del fu pensiero progressista – è pronto ad indossare i panni del pm…

Mi ha colpito il suo sfogo sull’autonomia differenziata: non ce l’ha con il ministro Calderoli e il governo Meloni ma – al contrario – con certe classi dirigenti del Sud che non intendono raccogliere la sfida della responsabilità. Ma come, un meridionale con un pedigree di sinistra, che non accetta di accodarsi alla retorica contro la “spacca-Italia”: eresia!

«Proprio così. Il mio punto di partenza, non avendo alcun genere di vincoli politici né di appartenenze, è questo: vivo al Sud, frequento il Sud. E cosa vedo? Che il Sud sta molto indietro rispetto al resto d’Italia. Allora dico: se la situazione è questa perché dobbiamo mantenerlo ancora così come sta? Non possiamo provare a cambiare? Io parto sempre dall’idea che poi le cose vanno cambiate, noi dobbiamo esistere per cambiare le cose non per mantenerle così come sono…».

L’abc per un progressista: di destra, di sinistra, di centro…

«Per questo, all’origine, diventai un uomo di sinistra. Perché pensavo che volevo cambiare le cose. Dopodiché da quando ho scoperto che quelli che vogliono mantenere le cose così come stanno sono quelli di sinistra mi sono chiesto: sto sbagliando io o stanno sbagliando loro? Chi è di sinistra e chi no? Non lo so: non me lo chiedo più però dico – che diamine – non è possibile continuare così».

Torniamo sul binario dell’autonomia differenziata.

«Il Sud d’Italia, dicevamo, sta in una situazione pietosa. Se c’è una legge che può cambiare le cose ben venga allora. E aggiungo: mettiamoci tutti quanti insieme per capire come si possono cambiare le cose al meglio. Ma quando poi vedo che invece arrivano queste resistenze dentro il Sud, da parte di chi governa da tempo questi territori allora mi incazzo. E dico fra me e me: ci sarà qualche ragione…»

Quale?

«Evidentemente intendono continuare ad avere questo Meridione assistito nel quale arrivano i denari pubblici senza che poi si assumano delle precise responsabilità. Questo approccio suscita il legittimo risentimento da parte della gente del Nord. Alla fine i soldi pubblici sono droga, droga pesante…”.

Non stupisce che proprio due big del Pd, come Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, che gestiscono Campania e Puglia come due regioni “autonome” (a partire dal loro stesso partito), intendono guidare la cordata contro l’applicazione della riforma del Titolo V istituita proprio dal centrosinistra?

«Non mi stupisce se leggo le cose come ho appena detto: ossia il fatto che poi conviene avere dei flussi di spesa pubblica che si utilizzano per mantenere il potere attraverso il consenso clientelare. Questa è l’unica spiegazione. Mi dispiace nel caso di De Luca: perché all’inizio aveva avuto un atteggiamento aperto sulla questione, prima che arrivasse la legge. Quando si discuteva di autonomia differenziata aveva detto “benissimo, accetto la sfida”. Poi ha cambiato idea ed è un peccato: perché in realtà lui avrebbe le qualità per accettare».

Anche sul premierato ha definito le opposizioni «inconcludenti».

«Ma certo. Inconcludenti e conservatrici. Pensi: la sinistra, quando la frequentavo, era per le riforme co-sti-tu-zio-na-li! Voleva la democrazia governante, si batteva anche per il premierato, per il semipresidenzialismo. Le formule si trovano, il problema è avere una democrazia che sia più decidente. Questo pensava la sinistra…».

Ci ha fatto le Bicamerali…

«All’epoca di quella D’Alema ero il suo principale collaboratore. Ricordo bene cosa proponeva all’epoca la sinistra. Dopodiché, finita quella stagione, la sinistra ha scelto di contrastare qualunque proposta si faccia perché da opposizione preferisce i comizi, le piazzate, urlare contro i cattivoni che stanno al governo. È una cosa di scarso respiro».

Mi chiedo e le chiedo se la cosiddetta vocazione maggioritaria dei post-comunisti, in fondo, non sia stata solo una fiammata. Ed è tornato, invece, il meccanismo di sentirsi una minoranza organizzata sì ma “morale”…

«Non c’è alcun dubbio. Uno dei problemi della sinistra è proprio questo: quello di sentirsi superiore, dal punto di vista morale ed etico, a tutto il resto della compagnia. Allora, in ragione di questo preconcetto, quando una tesi, una battaglia, una causa la sposa la sinistra è buona; quando la sposa la destra non lo è più. Dove nasce questo approccio? Dal fatto che la prima sia nata per cambiare la società, per cambiare il mondo – e già questo, detto così, è una cosa discutibile. Perché l’essere umano, come diceva il filosofo, è un legno storto: bisogna accettarlo per quello che è. L’idea che tu possa cambiare dall’alto la società e il genere umano è un’idea non democratica. È un’idea delle dittature. E in maniera particolare della sinistra, che quando è stata al potere – nei regimi socialisti dell’Est – pensava di poter cambiare la natura dell’essere umano: per via autoritativa e sacerdotale. Alla base c’è proprio una visione anti-umanistica. Agghiacciante».

Eppure, sotto sotto, tanti sindaci e tanti amministratori del Pd pensano “forza Nordio”. Parliamo ovviamente di riforma della giustizia…

«Anche qui non c’è dubbio. È questo l’altro grande problema che ha la sinistra. Trent’anni fa si è appiattita sotto le vesti della stagione di Mani pulite e da allora non è più riuscita a liberarsi dall’abbraccio mortale con la magistratura. L’alleanza malata fra magistratura e media non fa sconti a nessuno: all’inizio non mise sotto torchio i politici del Pci-Ds, poi da un certo momento ha messo sotto la politica di qualsiasi schieramento. E naturalmente più si avanti, peggio è: perché adesso il problema fondamentale dalla corruzione passa a qualunque atto di natura amministrativa che un sindaco fa. Ma di questo non ci può lamentare se non ci si ribella: solo che la sinistra si è incatenata da sola, mani e piedi, alla magistratura. Solo in pochi sono rimasti fedeli alle radici garantiste».

Radici “archeologiche”?

«Sto parlando della stagione di quando la sinistra era più forte e rappresentata nel mondo dell’avvocatura che non in quello della magistratura. Perché gli avvocati, appunto, erano quelli che difendevano i poveracci: parlo degli inizi del ‘900 con le leghe bracciantili. Gli avvocati erano espressione di questa professione liberale che difendeva i poveri cristi; mentre i magistrati erano quelli che naturalmente difendevano il potere costituito…Dopodiché per questa strana eterogenesi dei fini la sinistra è finita schierata con i magistrati. Assurdo. Questo sempre perché i magistrati all’inizio di Tangentopoli hanno giocato un ruolo politico che sembrava andare a favore della sinistra».

Il rapporto fra sinistra e “status quo” è forse la chiave di volta per completare il quadro di questa regressione?

«Il problema è che i progressisti sono diventati conservatori. Il XX secolo è stato una stagione di grande avanzate sociali: provocate e volute dai primi. Lo Stato sociale, il lavoro più protetto sono state grandi conquiste di cui la sinistra è stata, oggettivamente, protagonista. Realizzate queste conquiste, però, la sinistra si è seduta. E quindi adesso difende i pensionati e non i rider o le partite Iva, che vorrebbe difendere se volesse fare – davvero – la sinistra. Difende lo status quo in tutte le sue manifestazioni ed è diventata, fondamentalmente, un grande apparato di potere. A difesa solo delle fasce protette»

A proposito di fasce protette, c’è pure la fascia protettissima ed esclusiva della “Ztl”: divenuta ormai una categoria socio-politica per individuare il coté dei progressisti…

«Non a caso. Perché quando sei diventata una forza che lavora a difesa dello status quo, quando sei una forza che si atteggia a superiore sul piano morale, è evidente che a quel punto perdi di vista le tue caratteristiche sociali e ti arrocchi dentro le Ztl. Da dove tu puoi fare delle belle prediche a favore dei poveri: ma la verità è che tu vivi una meraviglia lì dentro e te ne freghi dei poveri veri».

Questo campo largo come lo vedi?

«Mah. È una formuletta che serve al momento solo a cercare di prosciugare i 5 Stelle. Che non è una cosa malvagia, eh: meno male che questa bolla di populismo si disperda e quindi qualcuno rifluisce nella ragionevolezza. Quindi va bene così, se serve al Pd di Elly Schlein per cercare di prosciugare il campo dei 5 Stelle.  Naturalmente qual è il punto? Che tu devi prosciugare però non aderendo ai temi a cui i grillini aderiscono: dovresti far crescere il tuo elettorato in una prospettiva, diamolo fra mille virgolette, “riformista”. Anche se oramai accostare il termine riformista al Pd mi sembra un’impresa assai difficile».

Non a caso la risposta di Schlein & co davanti alla parola “riforme” è una sola: i referendum per dire no.

«È una cosa assurda, ridicola e perdente. O meglio, io voglio persino prendere in considerazione la cosa che con i referendum si possa dare qualche “spallata”. Ma a che serve? Dopo che l’hai data, questa spallata, si ha un Paese migliore? È tutto un calcolo di corto respiro. Queste spallate non hanno mai successo; in ogni caso portano verso il peggio non verso il meglio. E quello che veramente mi dispiace, su questo fronte, è la deriva di un uomo a cui anche personalmente ho puntato molto: che è Matteo Renzi».

Deluso pure dall’ex rottamatore?

«Si è fatto prendere anche lui da questo vortice dei referendum. Si sta praticamente rendendo protagonista di una cosa allucinante. Rischia di andare incontro a dei referendum in cui insieme ci sta l’autonomia differenziata e il Jobs Act. Uno come Renzi ha promosso il Jobs Act e dovrà andare a dire “no” all’abolizione di questo e “sì” alla fine dell’autonomia differenziata. Si è messo in un casino che la metà basta. E questo mi dispiace perché lui era politicamente molto lucido: è finita pure quella stagione».

L’obiettivo è creare un “gruppone” stile Fronte popolare. Ovviamente antifascista…

«Lì siamo alla propaganda becera. Quando proprio devi raschiare il fondo del barile, non si sa più che altro dire e si ripiega in queste etichette che oggi non hanno nessun senso. Naturalmente sarebbe bene – ma Giorgia Meloni lo fa con grande sapienza, un passettino alla volta anche dal punto di vista simbolico. Dicevo sarebbe bene, non quando siamo nel fuoco della polemica ma un giorno così, ex abrupto, Giorgia Meloni si svegliasse per dire “sono più antifascista di voi: mi avete rotto le scatole”. Lo dico in modo un po’ paradossale: ma è un modo per dire che chi solleva la polemica sull’antifascismo e così via sbaglia ed è autolesionista quando lo fa: perché non acchiappa neanche un voto in più. Coltiva soltanto il risentimento di una parte dei militanti e dell’elettorato: sempre più minoritaria».

Lo ha detto qualche giorno dopo la tua nuova direzione del Riformista: attaccando «l’inattualità dell’antifascismo». E’ stato perdonato?

«Figuriamoci. Non mi perdonano tante cose perché avendo conquistato la libertà – anche quella dalla sinistra – in tarda età la utilizzo come mi pare. È chiaro che da quelle parti si vive molto di conformismo. E quindi ogni posizione che non esprime fedeltà a questa “dottrina” dà fastidio: a maggior da parte di uno, come me, al quale rinfacciano ancora oggi di essere “quel Velardi che con D’Alema…”. Oh: ancora con questo D’Alema? E basta!».

Diciamo però che proprio in quella stagione di D’Alema ci furono dei tentativi, non troppo fortunati ma ci furono, di trovare un terreno comune. Banalmente di fare politica di sistema.

«Questo è il principio base della politica. Quello del dialogo e del confronto con l’avversario. Vedi: abbiamo toccato tutti i temi: autonomia, premierato, giustizia. Tutti i temi del sistema sui quale si deve dialogare con l’avversario. Poi non si è d’accordo, pazienza. Ma il dialogo è fondamentale. Soprattutto in Italia che fa fatica, come abbiamo visto, a mettere insieme la storia in maniera condivisa. Ma almeno sul futuro, sulle cose da fare, è necessario recuperare questo strumento».

Abbiamo capito che non è più tempo di bicamerale ma di certo è tempo di riforme: il problema è che un riformista, a sinistra, oggi è come uno scozzese in terra inglese…

«(sorride) Diciamo di sì…».

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *