Il colloquio. Meloni, la portabandiera dell’eurorealismo: a lezione con Lorenzo Castellani
Qualche ora dopo l’esclusione dell’Italia dal vertice sui top job europei – un problema «di metodo e di merito» per Giorgia Meloni – ecco giungermi un messaggio sullo smartphone: «Una forzatura insensata…». Dall’altra parte c’è Lorenzo Castellani, politologo, editorialista e docente di Storia delle Istituzioni Politiche alla Luiss. Fra gli studiosi della nuova generazione è quello che interpreta con più originalità i dettami della scuola realista. E chissà quante lezioni del genere servirebbero ai tipi di Bruxelles per affrontare i marosi di questa stagione: proprio nel nome «di quell’eurorealismo» di cui la premier italiana, come sottolinea il professore, sembra essere la punta più avanzata. Anche per questo, una volta diradato il polverone, «non potrà non essere nella e della partita».
Professore, come ci diciamo da qualche anno siamo in pieno “ciclo paretiano”. Gli unici a non essersene accorti però, oltre a certi commentatori nostrani, sembrano essere i titani sconfitti: Emmanuel Macron ed Olaf Scholz…
«L’Italia è più avanti nel ciclo paretiano di circolazione delle élite perché da noi il nazional-populismo è nato e prosperato prima: essendo stati noi il più debole dei grandi Paesi durante la crisi dei debiti sovrani ed essendo il centro e la sinistra in Italia tra le più deboli in Europa. Ma oggi la crisi di delegittimazione dei partiti europeisti e che si riconoscevano nella globalizzazione è arrivata dalla periferia al cuore dell’Europa, cioè a Francia, Germania e aggiungerei Olanda e Belgio. Francia e Germania sono in una situazione di transizione: hanno governi europeisti ma molto deboli e per difendersi cercano l’arrocco in Europa contro i gruppi di destra».
Le elezioni europee hanno consegnato come fatto politico inequivocabile la vittoria di Giorgia Meloni. La conseguenza però, con la pressione dei bocciati alle urne Pse e liberali, è stata quella di cercare di “cordonare” la forza che guida nonché terzo partito dell’Europarlamento: l’Ecr. In democrazia non si dovrebbe riconoscere, prima di tutto, il messaggio di un’elezione?
«Le regole dell’Ue permettono di far prevalere la politica di Palazzo sui risultati elettorali nazionali, mettendo ai margini i nuovi leader come Meloni. Basti pensare che De Croo, ex primo ministro belga e uno dei principali negoziatori dell’accordo sui top jobs, si è appena dimesso dopo che il suo partito è arrivato quinto alle elezioni belghe tenutesi in contemporanea con le Europee. C’è uno sfasamento dunque tra risultati elettorali e chi è formalmente in carica nel Consiglio Europeo».
Al commentatore unico nostrano, invece, preme solo dire: “L’Italia è isolata”…
«Si può fare a meno di Meloni in questo scenario? A livello di Parlamento europeo mi sembra difficile: Ursula Von der Leyen rischierebbe molto. C’è poi un fattore di percezione. Se Marine Le Pen arrivasse prima in Francia davvero si può pensare ad una conventio ad excludendum verso tutta la destra? Almeno una parte di essa, quella filo-atlantica, che rispetta le regole europee pur volendole modificare, che è già al governo, che non deraglia agli estremi come Meloni conviene tenerla in partita».
Parafrasando il titolo di un suo libro, l’impressione è che “l’ingranaggio del potere” di certo establishment europeo sia diventato – troppo spudoratamente – l’autoreferenzialità. Kratos senza demos. Non a caso siamo ai minimi termini per ciò che riguarda la rappresentanza: appena 399 eurodeputati per la Grosse Koalition…
«Ecco perché escludere comporta un rischio di voti per Ursula von der Lryen, ma anche un problema di governo dell’Ue. Perché Meloni, con Orban, Fiala e magari domani i governi olandesi e belga, possono porre, per motivi diversi, il veto su futuri accordi europei. Si creerebbe uno status quo pericoloso per l’Europa stessa».
Il fatto singolare è che tutti gli analisti economici più ascoltati – dalle colonne dell’Economist a quelle di Bloomberg – hanno consigliato apertamente a Bruxelles di tenersi stretta Giorgia Meloni. Riconoscendone ruolo e vittoria.
«Alla maggioranza attuale, vista la debolezza dei partiti che ne fanno parte a livello nazionale e i numeri in Parlamento, converrebbe certo tenersi la porta aperta con Meloni. Anche perché chiuderla significherebbe privarsi del suo supporto per tutta la legislatura e, come dicevo, averla su posizioni più critiche anche in Consiglio. C’è chi spinge affinché i partiti europeisti si girino verso i Verdi: ma i Popolari possono permettersi una alleanza con chi più dispiace ai propri elettori?»
La risposta dei maggiorenti è stato il riconoscimento del ruolo dell’Italia nella prossima Commissione: tendenzialmente un fatto scontato. È come se non abbiano compreso – o facciano finta – il portato di ciò che è avvenuto: la bocciatura, sostanziale, dell’agenda “arcobaleno”, del Green deal, del dirigismo, del monetarismo.
«Quell’agenda difficilmente starà ancora in piedi in questa legislatura sia per fattori geopolitici che industriali che di mutamento del consenso interno alle democrazie europee. Andrà corretto, ricalibrato sulle priorità espresse dagli elettori, senza sfasciare l’Unione ovviamente. Politica industriale, difesa e immigrazione sono ciò che oggi bisogna affrontare. Per farlo bisognerà lasciare da parte sia il dirigismo del Green deal sia preoccupazioni ossessive per la regolazione, sia politiche di bilancio troppo restrittive. I conti devono essere in ordine ma l’Ue dovrebbe derogare al Patto di stabilità per affrontare le priorità strategiche».
Nel frattempo le elezioni di Francia, fra questa domenica e la prossima, si candidano a cambiare i connotati alla Quinta Repubblica. Il fatto nuovo è la nascita del centrodestra francese: la fine dell’arco repubblicano nei confronti del Rassemblement national da parte dei neogollisti. Quanto c’è dell’effetto Meloni in questa dinamica?
«Giorgia Meloni è diventata un modello oltralpe, i colleghi francesi iniziano a parlare di “melonismo” per indicare il processo di legittimazione della destra sovranista attraverso l’accettazione di due vincoli esterni: la permanenza nell’euro e l’accettazione dei vincoli di politica estera filo-atlantica».
La mossa spericolata di Macron – ordita per cercare di limitare l’onda del Rn – potrebbe determinare la creazione di un allineamento storico fra Roma e Parigi nel caso della vittoria di Jordan Bardella. Non crede?
«Se Jordan Bardella andasse al governo applicherebbe questo schema e ci sarebbe una corrispondenza con Meloni anche se, come detto già altrove, ciò non implicherà automaticamente il miglioramento della relazione tra Italia e Francia».
Tutto ciò a pochi giochi dal calcio di inizio della partita per la prossima Commissione. Primo appuntamento il 18 luglio all’Europarlamento. Alla luce di quello che ci siamo detti qual è la sua previsione?
«A Bruxelles credo che si andrà verso un tacito accordo tra Meloni e Ppe: voto a Von der Leyen in cambio di un buon commissario per l’Italia. In questa situazione di “sfasamento” e “arrocco” di cui dicevo prima è difficile fare di più. Ma anche finisse così si romperebbe ulteriormente quell’idea che la destra non possa entrare nelle stanze del potere di Bruxelles. Non è poco, Meloni diventerebbe la portabandiera di un eurorealismo che rischia di vincere in molti altri paesi come si è detto».
Insomma l’Italia dei “signorsì” non è destino segnato. O no?
«Bisogna evitare di abbandonarsi agli estremi: la mania di grandezza da un lato e il complesso di inferiorità dall’altro. Un governo stabile e omogeneo aiuta nelle relazioni internazionali ed europee. Se altri attori con posizioni simili a Meloni vincono nei rispettivi Paesi questo può aiutare la premier. A mio avviso bisogna aver chiare linee rosse e opportunità. Tra le prime, il sostegno all’Ucraina, un rapporto con la Cina concordato con gli americani, la partecipazione alle decisioni Nato. Tra le seconde, una politica più forte e costruttiva in Nord Africa, una maggiore collaborazione europea su difesa e immigrazione, indebolimento di regole e normative demenziali e irrealistiche sull’ambiente e sulla concorrenza. Il contributo del nuovo “sovranismo di governo”, chiamiamolo così, dovrebbe essere quello di una integrazione europea selettiva, soltanto su ciò che è davvero utile ai Paesi membri perché sovranazionale per natura o per necessità dello scenario geopolitico».