Il libro. Le “Sei ore da perdere” di Brasillach: quando il suolo della patria diventa tutto

23 Giu 2024 8:33 - di Lorenzo Cafarchio

“Domani”, finalmente, “avrei dovuto vivere”. Perché domani è l’infinito messo su carta stampata. L’odore di fogli Arena Ivory Rough da 90 grammi e cartoncino Constellation Snow Fiandra da 350 grammi, cartiere Fedrigoni, pervade i sensi e la lettura. La copertina carta da zucchero è adornata da una fascetta rossa che recita: “Nella Parigi occupata dai tedeschi, un’enigmatica Antigone medita la sua vendetta”. Siamo all’incontro con Edizioni Settecolori e torniamo al 2023 perché tra le mani abbiamo una copia, numerata, del romanzo Sei ore da perdere (248 pp.; 22,00€) di Robert Brasillach. Il silenzio non ha mai fatto rima con il poeta nero arrivato da Perpignano. Che poi si fa presto a dire nero, siamo sempre alla ricerca di una targa, di un emblema, ma questa volta, per una volta, siamo davanti a un segno riconoscibile della parola libertà. Libertà nera, anzi nerissima. In epoca di censura ed epurazioni gridate a reti unificate pensare che, quasi, 80 anni fa uno scrittore in sei ore, cifra ricorrente, veniva condannato a morte è una ferita che non può rimarginarsi nella coscienza dei tolleranti vincitori. Ma ci torneremo. Ora lo scritto.

Anno 1943. La Francia è occupata dai nazisti, ma non siamo in Bastardi senza gloria, siamo al centro della storia e tutto pulsa. Dopo 40 mesi l’ufficiale Robert B. torna a Parigi, ma nulla è più come prima. Aspetta un treno e nelle sei ore che lo attendono verso casa ha una missione: scovare Marie-Ange. Ovvero la fiamma che Bruno Berthier, suo compagno di prigionia, conobbe durante una licenza e di cui conserva un tenero ricordo d’amore. Tra mestizia, miseria, miserabili, mercato nero, meretricio, morale malmessa e le facce che non sono più le stesse la vicenda diventa una faccenda tra luci blu di polizia e un ex marito, proprio di Marie-Ange, trovato morto alla frontiera tra Francia e Belgio. I gendarmi sono sulle tracce della donna che, ormai, si è resa irrintracciabile, ma non per B. S.A. Cosby in un’intervista di qualche tempo fa sulle colonne de La Lettura, parlando della sua ultima fatica letteraria Il sangue dei peccatori, ci invitava a credergli: “il crime è vero romanzo sociale”. Rimarcava “noi neri siamo invisibili, se va bene; vittime se va male, di chi dice che i nostri diritti valgono meno”. Un sottile filo nero che traghetta nel “tragico sociale” di una penna dove illusioni e innocenza si mischiano per perdersi perennemente. Ma qui nessuno, con la schiena maledettamente dritta, fa la vittima. Anzi poggia il petto contro la canna della pistola tra le mani dell’oppressore. Il testo pubblicato sul settimanale La Révolution nationale, dal marzo al giugno 1944, è il noir che oggi sarebbe crime capace di mostrare l’ennesimo stile interpretato da Brasillach nei suoi soli 35 anni di vita. E finalmente, per la prima volta, è disponibile in italiano.

Come ricorda Roberto Alfatti Appetiti, nella preziosa introduzione al testo, Robert Camus – tra i firmatari dell’appello contro la condanna a morte voluta da Charles de Gaulle e perpetrata all’autore de I sette colori il 6 febbraio 1945 – scrisse che “se Brasillach fosse ancora tra noi avremmo potuto giudicarlo. Invece ora è lui a giudicare noi”. Ma forse non lo avrebbe fatto, si sarebbe limitato a scrivere perché conta solo l’inchiostro che diventa sangue. E poi, Lucien Rebatet ipse dixit, lui “ha pagato per noi”. Il conto prego. Come un vaso giapponese la narrativa, l’esistenza, lo stile dell’intellettuale si spezzano, ma tornano assieme arricchiti da una lamina d’oro che è l’essenza del pensiero rimasto nella bobina dell’onore. In un altro volume, edito in Italia da Scheiwiller e in Francia pubblicato postumo nel 1947 da Les Sept Couleurs, dedicato ad André Chénier, giustiziato dalla ghigliottina della Rivoluzione francese, Robert riflette sul perché il letterato abbia deciso di non darsi alla macchia. “Come mai non è emigrato? Perché non ha preferito l’idea della Patria al suolo della Patria? È stato un caso? No, bisogna dirlo, perché qui sta l’originalità di fondo della posizione di Chénier e di molti suoi contemporanei: è perché non ha voluto. Nei suoi scritti egli mette costantemente a raffronto – e non per pura retorica – due avversari che egli rifiuta in egual modo: gli emigrati e i terroristi”. Dietro quegli occhiali, dietro quella Nazione che fa male c’è il coraggio dell’ora finale. L’arresto della madre, il consegnarsi al nemico, la prigionia, il processo, la condanna e la fucilazione. Hanno ucciso un poeta, ma la sua incisione su carta è un taglio capace di far impallidire Fontana. E quel fendente brucia ancora nella nostra pelle come un tatuaggio indelebile.

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