Centoventisei anni fa nasceva Curzio Malaparte, il toscano benedetto (e sempre un po’ più in là)

9 Giu 2024 12:44 - di Lorenzo Cafarchio

1898 vuol dire Julius Evola, Bertolt Brecht, Totò, Enzo Ferrari, Federico Garcia Lorca ed Erich Maria Remarque. Ma il 9 giugno 1898 ci racconta della nascita di Curzio Malaparte. In quella calda e fertile nidiata della cultura italiana Kurt Erich Suckert, questo il suo vero nome, è la rappresentazione plastica dell’essenza mammasantissima del pensiero. Immenso nelle sue rivoluzioni, nelle sue conservazioni, nei suoi cambi, nel suo essere tutto il contrario di tutto. Ossimoro su due gambe, ghiaccio bollente tra etica ed epica.

Per raccontarlo, nel giorno del suo 126esimo compleanno, attraversiamo le pagine di Maledetti toscani opera realizzata nel 1956, un anno prima della morte, frutto di una ventennale e tormentata elaborazione. “Io son di Prato, m’accontento d’esser di Prato, e se non fossi nato pratese vorrei non esser venuto al mondo”. La narrazione di chi pensa che “il solo difetto dei toscani sia quello di non esser tutti pratesi”. Storie e vicende come quella dell’omino che con il suo carretto precede una colonna di soldati americani durante la Seconda Guerra Mondiale. Sfrontato e sbeffeggiante davanti alle grida degli Yankee che inveiscono “go away, go away”. “O chi vi credete, d’essere a casa vostra? C’è tanto posto nel mondo per andare a fare la guerra, proprio qui vu’ avete a venire? O buchi!”.

Le parole tracciano un filo, un sentire, una ragnatela tra vivere e morire e l’arcitaliano per antonomasia le ha narrate tutte. In quella strafottenza tra le righe si legge la storia di una Nazione che non ha mai dovuto chiedere, capace di scrivere da sola la propria leggenda. Leggenda che abbraccia il popolo, mai massa, divenuto tutt’uno avvolgendosi al tricolore. La scatola nera d’Italia che prude tra le vie della censura odierna, perché tutto questo è la “testimonianza più vera che la libertà di stampa, in Italia, è della stessa famiglia della libertà di orinare”. Forse perché chi non è un uomo indipendente non può che essere un “uomo grullo”.

Chi potrà salvarci da tutto questo, da queste parafilie, da questo mondo, solo Cristo nella parabola malapartiana. Di lui ancora oggi si parla, della sua casa a Capri dove cineasti, stilisti e le mode di questo tempo si inseguono per conquistare l’abitazione fatta su misura alla sua metafora che ricorda, citando Bruce Chatwin, “una nave omerica finita a secco”. Dal confino al centro del dibattito, dal Fascismo al comunismo, dall’atea concezione alla redenzione attraverso la croce una vita vissuta sempre. Sempre in là, sempre un po’ più in là laddove, giova ricordarlo, “i toscani son la cattiva coscienza d’Italia”. Aforista fotografo di tempi che saranno eterni ovunque, senza dimenticare l’amarezza che gli produceva “passare per un collaborazionista”, così da rifugiarsi “nella lettura dell’amato Chateaubriand, di cui gli piace il disprezzo verso gli uomini nuovi”, dicendola coi lemmi del poeta Giacinto Spagnoletti. Chiacchierone, ma di poche parole proprio come i suoi conterranei, proprio come quella Toscana che nell’olio dei pensieri diventa il burro che esalta l’idea al sole della terra dell’ulivo.

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