Chi è J.D. Vance e chi si crede di essere: la sua autobiografia è una bella lezione per la destra italiana
“Ho trentun anni e sono il primo ad ammettere di non aver realizzato nulla di particolare nella mia vita, perlomeno nulla che dovrebbe indurre un perfetto sconosciuto a sborsare dei soldi per leggerlo”, così si apre ‘Elegia americana’, il memoir che ha consacrato J. D. Vance quale voce dell’America profonda.
Il libro è del 2016, esce in Italia per Garzanti l’anno seguente.
Il suo autore è in effetti un perfetto sconosciuto alle nostre latitudini e negli stessi Stati Uniti, all’apparire del testo, non è di certo una celebrità.
Quella che potrebbe apparire capziosa e strategica professione di pelosa umiltà è in realtà autentica sorpresa per lo stesso Vance, all’epoca promettente manager della Silicon Valley, con una laurea in legge conseguita a Yale e, particolare non da poco, servizio militare prestato in Iraq, sotto l’eco spezzata e infranta del cemento e dei lutti dell’11 settembre.
Hillbilly Elegy, scritta da Vance quando era diventato un manager della Silicon Valley
Vance vive all’epoca con la famiglia a San Francisco ma non è un figlio della soleggiata e progressista California. È originario dell’Ohio e del Kentucky, un prodotto di quella America davvero profonda che spesso commentatori e intellettuali approcciano con nemmeno tanto celato disgusto, e proprio con ciò inficiando già nelle loro premesse qualunque possibilità di autentica comprensione.
Il suo memoir nel titolo originale reca un segno distintivo ineludibile: ‘Hillbilly Elegy’. Quindi non una ‘elegia americana’, come divenuto per evidenti ragioni di intelligibilità e di commercio in Italia, ma una elegia di quella America rovesciata, rugginosa, dimenticata, la cui ricerca della felicità si è arenata tra le sabbie di una politica distante, della automazione dei processi produttivi, delle crisi finanziarie ed economiche.
J.D. Vance: autobiografia di un ‘bifolco’ americano
Gli Hillbilly, come i rednecke l’umanità white-trash che vive nei camper e nelle roulotte alla periferia estrema dell’Impero, sono i figli degli Stati rurali, degli Stati un tempo prosperi nelle loro cattedrali d’industria e ora rifluiti a palcoscenico di miseria, ruggine e polvere. Sono gli isolati tra le montagne, in quegli spazi verdi dove il suono dei tuoni ancora oggi, come al tempo dei pionieri, fa paura.
Un mondo che vive di tradizioni, contraddizioni, rituali familiari e consuetudini che tantissimi altri americani inurbati non possono capire.
Sono minoranza che però, in quanto bianchi, nessuno riconoscerà mai come minoranza. Nessuna ‘azione positiva’, nessuna lacrima di potenti cattedratici o di affermate star hollywoodiane, nessuno, mai, si inginocchierà per loro.
Nonostante oggi Vance, grazie anche agli auspici del venture-capitalist Peter Thiel, da repubblicano anti-trumpiano sia divenuto un fervente trumpiano tanto da essere asceso, per scelta di Trump stesso, a suo vice per la campagna elettorale per le presidenziali di novembre, e nonostante questo posizionamento abbia portato molti commentatori a sdilinquire e minimizzare il valore del suo libro, che però all’epoca avevano lodato in ogni modo, ‘Elegia americana’ resta un viaggio profondo, doloroso, analitico nel ventre di quella America che noi e con noi tanti americani forse nemmeno vogliamo vedere. E che pure esiste. E vota.
C’è una America che non è figlia del risentimento, come pure piace tanto ai progressisti enunciare con tono enfatico e insultante.
Questa America, più semplicemente ma non meno drammaticamente, è una America quasi invisibile, esclusa, lontana dalle luci di New York, dalla complessità stordente dei grandi Atenei, dalle sirene della politica internazionale: una America che muore al morire del proprio bestiame, al chiudere delle fabbriche e per cui l’Ucraina è un nome su una mappa, come potrebbero esserlo Boston e Los Angeles.
Non sono vatnik filo-putiniani questi americani indifferenti al carnaio ucraino, sono indifferenti alla grande politica mondiale perché la loro politica nasce, vive e muore sulla tavola che devono riuscire a imbandire per pranzo e per cena.
Una America oscurata e insabbiata dalla coltre del passaggio del tempo e dalla indifferenza di chi oggi la insulta, una America per la quale l’isolazionismo non è mero egoismo ma realismo scolpito da un orizzonte di povertà.