Il libro. “L’acqua fresca” di Drieu La Rochelle è il gusto dell’amore che diventa opera teatrale
– “Forse abbiamo scacciato il fantasma del denaro e dell’orgoglio. Ha il sapore dell’acqua fresca”.
– “Sì, insomma, l’amore e l’acqua fresca”.
Il sipario scende, gli applausi si alzano, le persone lasciano la sala. 1931 esattamente 19 maggio, Louis Jouvet mette in scena L’eau fraîche a la Comédie de Champs-Elysées. Una sala intermedia da 601 posti inserita nel contesto del teatro lirico che sorge al civico 15 di Aveneu Montaigne nel cuore di Parigi. L’autore della sceneggiatura e del testo il precedente settembre scriveva ad André Boyer di essere in cerca della “mia fortuna sul palcoscenico teatrale”. Non mancarono le critiche, ma le critiche nella vita di Pierre Drieu La Rochelle non sono mai mancate. La casa editrice Aspis ha dato in pasto alle rotative, per la prima volta in Italia, la traduzione dell’opera teatrale in questione: L’acqua fresca (264 pp.; 14,00€). Introdotto da Marco Spada, che ha curato anche la traduzione del testo, e con la postfazione di Marco Settimini possiamo immergerci nel mare concentrato della produzione di Drieu. Dialoghi, dialoghi e ancora pose che ci parlano di Jérôme, Thomas, il padre di Catherine, Catherine e Florence i protagonisti dell’allestimento.
Scevro da rincorse letterarie, dalle minuziose descrizioni, dai soliti preziosi intagli nella trama di La Rochelle la messa in scena è l’essenza dell’autore. Pura e senza mezzi termini. Perché lo scrittore è consapevole che “si può rendere felice la gente solo con la brutalità”. La messa in scena prende vita dalla battuta finale dei due protagonisti, Jérôme e Catherine, che si rifà all’espressione francese “vivere d’amore e d’acqua fresca”. Indica “il vivere con poco o niente, nutrendosi d’amore, oppure, al contrario, il nutrirsi d’amore, vivendo con poco o niente, in modo quasi fanciullesco”, come ci spiega Settimini. Eccolo il narratore della borghesia di Francia degli anni a cavallo tra le due guerre. Lo speleologo della condizione di uomini e donne stanchi che trincerano le proprie frustrazioni in amori da romanzi rosa, in incroci ingarbugliati, in sensazioni insoddisfatte dove il danaro conta più dei sentimenti. Léon Bloy, in Esegesi dei luoghi comuni, fotografa la fittizia concezione che porta in dote il capitalismo dei sentimenti: “La sola e indispensabile condizione per fare un buon matrimonio è di mettere in prima linea il danaro, avendo cura di considerare come oziosa e quindi pericolosa ogni altra considerazione”.
“I veri innamorati non sono mai ricchi”, ci sussurra all’orecchio Catherine mentre gli attori intrecciano le loro ansie sociali, puntano a una nuova condizione economica, cercano la realizzazione tramite il lavoro e tutti diventano amanti di tutti. Matrimoni fedifraghi che cercano la propria realizzazione nella castrazione dell’argent. Ma la domanda, che incalza lo spettatore come il lettore, è sempre e solo una. Possiamo ingannare il nostro animo? Imbrogliare davanti al “desiderio che sopravvive all’assenza” è pura finzione. Perché tutto torna come l’onda alla fine del riflusso, del resto Il paese della favole lo conoscono bene anche i Nomadi. Il punto alla fine delle frasi, delle sensazioni, degli innamoramenti lo mette Drieu. “Che cos’è la bellezza di una donna? Una promessa, un’allusione. A cosa? A ciò che conta per l’uomo: la grandezza”. Eccolo il bandolo della matassa che arriva dal romanzo Beloukia. Rotola questo gomitolo tra le pieghe di una società che ha puntato tutto sulla rincorsa alla borghesia, dove si bramano sensazioni forti nell’illusione della totale sicurezza. Nella fandonia del rischio zero. Per questo ci ritroviamo ancora attorno al fuoco di La Rochelle perché, a quasi 80 anni dalla morte, è in grado di sferzarci con le sue grandi passioni rigogliose. Passioni essenziali per chi può rinunciare a tutto tranne che alla propria natura.