Il primo passo verso il giusto processo è legge. Ora arriva il bello: stop a correnti e separazione delle carriere
È giunto ieri, con il voto alla Camera, il sì definitivo alla riforma della Giustizia voluta dal ministro Carlo Nordio, primo passo per la realizzazione di un modello di processo penale liberale che dia piena attuazione al giusto processo costituzionalmente sancito, ma troppo a lungo rimasto lettera morta. Con il provvedimento licenziato ieri, è abrogato il reato di abuso d’ufficio, fattispecie dalla formulazione tanto fumosa e indeterminata da essere divenuta, negli anni, uno strumento attraverso cui la magistratura, spesso con sospetto tempismo, ha interferito con la politica, ostacolando l’attività degli amministratori pubblici.
Non è un caso che a favore dell’abrogazione dell’art. 323 del codice penale, voluta dal Guardasigilli, si sia espressa anche l’Anci, rilevando come nel 93 per cento dei casi i sindaci indagati non vengano nemmeno rinviati a giudizio, mentre il 99 per cento dei primi cittadini tratti a processo venga prosciolto. Il contraltare di questa proliferazione di procedimenti penali è la paralisi dell’attività politica e amministrativa: la cosiddetta “paura della firma” spinge coloro che sono chiamati a gestire la cosa pubblica all’immobilismo, nel timore di incorrere in un calvario giudiziario che costituisce, a prescindere dall’esito, un danno alla reputazione, alla carriera politica e professionale nonché alla vita privata.
Ciò che sfugge a manettari e giustizialisti di ogni estrazione è che il processo penale è già, in sé, una condanna per chi lo subisce; proprio per questo, il principale obiettivo della riforma Nordio è la riaffermazione del principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, sia sul piano processuale che mediatico. Tramonta l’era delle inchieste ad uso e consumo della stampa: il processo si celebra nelle aule di giustizia, con le più piene garanzie difensive sin dal momento iniziale delle indagini. Grazie alla modifica dell’art. 114 del codice di rito, infatti, il Governo ha inteso porre un argine alla pubblicazione indiscriminata di intercettazioni, che troppo spesso ha trasformato indagini giudiziarie in vera e propria gogna mediatica nei confronti dell’avversario politico, gettando in pasto alla morbosa opinione pubblica aspetti intimi e riservatissimi della vita di persone spesso neppure indagate.
Non si tratta di bavaglio, come paventato da alcuni, adusi ad attingere da Procure particolarmente permeabili atti coperti da segreto istruttorio, da trasformare prontamente in titoli da prima pagina; l’obiettivo è tutelare coloro che, estranei alle indagini, vengono carpiti in intercettazioni che riguardano terzi. Queste persone hanno diritto a non vedere la propria vita esposta in pubblica piazza ed è a loro tutela che la riforma introduce dei limiti, rendendo pubblicabili solo le intercettazioni riportate in un provvedimento del giudice o utilizzate durante il dibattimento, tutelando l’identità e la riservatezza di tutti quei soggetti coinvolti nelle intercettazioni ma estranei ai fatti per cui si procede.
Quella approvata ieri è una riforma storica che pone le basi per la effettiva realizzazione del giusto processo, di cui l’art. 111 della Costituzione è baluardo. Da qui si parte per una riforma dell’ordinamento giudiziario che ponga fine a una serie di storture che hanno visto, troppo spesso, l’indipendenza e insindacabilità del potere giudiziario sfociare in spregiudicata militanza politica ed illimitato arbitrio. Attraverso la separazione delle carriere della magistratura giudicante e requirente e con l’istituzione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura, sorteggiati e non eletti, il principio di parità tra accusa e difesa innanzi a un giudice veramente terzo ed imparziale troverà, finalmente, piena attuazione e si porrà fine a decenni di correntismo che hanno inquinato un potere che, troppo spesso, dimentica di essere al servizio dei cittadini e dello Stato e non sovraordinato ad essi.