La Croce, il libro, l’aratro: l’Europa, prima dei Trattati, riscopra San Benedetto
C’è un’immagine che più d’altre rende capacitante la figura di San Benedetto da Norcia, patrono d’Europa di cui giovedì scorso, 11 luglio, si è celebrata la solennità. È un’icona presumibilmente rupestre che lo raffigura nell’atto di sorreggere con la mano sinistra un borgo di tipico aspetto medievale: archi, case armonicamente affastellate, tetti rossastri e campanili. Il santo, mitra in testa e mantello sulle spalle, sembra volgere uno sguardo amorevole verso questo piccolo agglomerato urbano. Attraverso una tale immagine, l’autore del dipinto indirizza all’osservatore un messaggio eloquente: San Benedetto custodisce e tutela la manifestazione concreta, di pietra e malta, della civiltà europea. Quel piccolo borgo che il Santo tiene sulla mano sinistra e che con la destra indica, potrebbe essere una delle tante località disseminate sulla nostra dorsale appenninica, nelle aree interne, inerpicate su colline e monti. È in luoghi come questi, del resto, che è stata concepita e si è sviluppata quella Regola benedettina che ha perpetuato un patrimonio umano e spirituale in un momento di obnubilamento civile e culturale a seguito della fine dell’Impero romano e delle conseguenti scorribande dei barbari invasori.
Civiltà nuova ispirata a un modello eterno
La storia di San Benedetto è nota. Tra V e VI secolo, in un’Italia e in un’Europa fortemente destabilizzate dopo il crollo della struttura politica che aveva garantito un ordine per circa 500 anni, regna il caos. La Penisola, in particolare, è terreno di scontro tra eserciti forestieri, teatro di devastazioni dei centri abitati, si assiste a grandi migrazioni e alla graduale involuzione dei valori. È in questo contesto che il giovane nursino, dopo un breve soggiorno a Roma, decide di ritirarsi dapprima a vita eremitica e poi di farsi interprete del bisogno di ricostituire dei modelli comunitari capaci di rimarginare le ferite sociali e spirituali. Il monachesimo, per Benedetto, non è una via di fuga, ma il suo esatto contrario. Il monachesimo è un’immersione integrale nella realtà mediante la riscoperta dei valori di base. La vita dei monaci e delle prime comunità che sorgono attorno ai monasteri è scandita dalla preghiera e dal lavoro. La Croce, il libro e l’aratro diventano presto fucine di scientia et fides, di ars et labor. Diventano l’incipit di una civiltà nuova benché ispirata a un modello eterno.
La Stabilitas
Ma la nascita di questa civiltà non può che avvalersi di un elemento fondamentale, che è quello della Stabilitas, cioè l’essere radicati su un posto. Come mi spiegava in un’intervista del 2014 la professoressa Renata Salvarani, storica del Cristianesimo e delle religioni, con il monachesimo benedettino “si abbandona dunque l’idea per cui si debba migrare a seguito di qualche evento specifico; si introduce invece il concetto di insediamento persino in zone malariche, aride, boscose al fine di trasformare il mondo anche dal punto di vista ambientale e agricolo”. La Stabilitas è una prospettiva filosofica, un modo di stare al mondo, è l’architrave del concetto di patria e del protagonismo dei popoli europei. È, insomma, un indirizzo che trascende in senso verticale quella stabilità politica in sede Ue di cui sentiamo parlare spesso in queste settimane. E l’assenza di questa Stabilitas, verosimilmente, l’assenza di radici profonde rende superfluo ogni pur importante vocazione politica unitaria. Per questo, prima ancora dei Trattati, occorre riscoprire San Benedetto.