“Ma io ti ho sempre salvato”: nel suo ultimo libro Luciano Violante riflette sulla morte per riprendere le redini del nostro tempo
“Tra me e il mondo c’è una sorta di coltre invisibile’ scrive C. S. Lewis in quello struggente affresco della perdita e della morte che risponde al titolo di Diario di un dolore. E poco prima affermava: “Il dolore assomiglia alla paura”. Molto, forse troppo spesso la rassicurante aura di brace e di caligine che poniamo tra noi e la percezione di quegli aghi che ci trafiggono carni ed anima è sdilinquita dal portato di una forzata rimozione del senso ultimo della morte. Un abbellimento, un ornamento che tra alta tecnologia e coloritura quasi pop del decesso, pensiamo alla narrazione grottesca e comico-kitsch di una Taffo sui social media, ci fa smarrire il senso di quella banalità crudele che è la scomparsa dal mondo.
“Ma io ti ho sempre salvato”: l’ultimo libro di Luciano Violante
E questa sì ci fa paura. William T. Vollmannrammenta invece illustra come e quanto la morte sia tragicamente banale, nel suo senso di accadimento naturale, inevitabile, reale, non romantico: certo, è arricchita di gotici ninnoli sovrastrutturali che la rendono temibile e metafisica, spaventosa, turrita, eppure a ben vedere è il suo utilizzo istituzionale, e non la sua reale natura, ad atterrire. Luciano Violante, nel suo ultimo, intimo libro, Ma io ti ho sempre salvato – La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri) riparte esattamente da questo, “dai fondamentali per riprendere le redini del nostro tempo”. Violante riflette anche sulle “sue morti” e, nel sopravvenuto dolore della scomparsa della moglie Giulia, su quella sofferenza su cui già Lewis si era interrogato.
Il senso delle nostre morti
“Il cielo è diventato di piombo”, annota l’ex Presidente della Camera, una asserzione che equivale quasi al “una formica nella bocca di una fornace”, per citare sempre Lewis. Il titolo dell’opera è una frase di realismo e di salvazione che la madre di Violante, nella rinuncia al potenziale aborto, nella temperie della guerra mondiale, tra i suoi fuochi e le sue privazioni, ha enunciato come dimensione di supremazia della vita sulla sua negazione. Il libro in certa misura si chiude con la riflessione personale e appunto intima del senso, straniante e straziante, della perdita. Quel tramonto che volge al buio assoluto e in cui i sensi sembrano smarrirsi nel cuore di una foresta più nera della morte stessa.
Non c’è mai nulla di oggettivo nella morte, nella perdita. Come rileva l’autore dopo, nei frammenti iniziali, aver citato Nietzsche e il congedo di Ulisse da Nausicaa. Molto spesso respingiamo la morte, rileva Violante, perché ci rifiutiamo di riflettere sulla vita. Ed è un dato di fatto, inoppugnabile. Di recente ricordato anche da Ines Testoni, nel suo Il grande libro della morte. La rimozione della morte come fattore culturale è un topos ricorrente nelle società del benessere. Non c’è dubbio che una società pervasa in maniera eccessiva dall’ombra del dolore finisca per perdere la propria razionalità, per disumanizzarsi. Troppo dolore, troppa assenza, ci portano a chiuderci in noi stessi, a rimuovere dall’orizzonte la vista e la figura della morte, come scrive E. Boncinelli nel suo ‘Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza’.
Speleologia dell’umano
Nei primi tre capitoli, Violante si interroga e sonda speleologicamente il senso della vita snudato davanti la gelida presenza della morte; grandezza e miseria del genere umano soprattutto nel suo avvolgersi, come spire serpentine, sul senso profondo di responsabilità che l’essere umano porta in merito alla distruzione, alla desolazione e alla morte su vasta scala, in quella ellissi mostruosamente sagittale che schiude i carnicini petali d’inferno, da Auschwitz a Hiroshima. E qui sembra di sentir echeggiare il Danilo Kîs di Enciclopedia dei morti, “il suo corpo fu inondato da una luce e da un calore lontani, poi tutto tornò a essere di nuovo pena dell’animo e oscurità del tempo. “La morte è necessaria per la vita”, scrive Violante, ricordando una straordinaria riflessione di Saramago e sondando la persistenza della morte nell’arte, la sua catarsi, il suo esorcismo e la sua riaffermazione come spettrale figura ontologica. D’altronde è stato Joyce a notare come l’assenza sia la forma più alta di presenza. Nel suo insinuarsi vigoroso e muschioso tra le maglie della nostra mente e del nostro cuore.
Il dominio della morte
In uno straordinario volume di Robert Pogue Harrison, Il dominio dei morti, viene proposta una lettura originale dei rituali di pianto, di rimorso, di lutto e di costruzione dei cimiteri, non visti come burocratica separazione tra il dominio dei morti e quello dei vivi quanto piuttosto come monumento alla permanenza del morto. Una riaffermazione che nella tomba vede il simbolo araldico della non-scomparsa di chi ci è stato e ci è caro ed amato. Al contrario, guerre, conflitti, migrazioni di massa, nota Violante, finiscono per desensibilizzarci, per rendere sovrabbondante ma anonima la morte. Serializzata, standardizzata, spesso negletta, come per quei casi in cui al morto viene negata la memoria e il commiato nel marmo dei cimiteri. Si pensi ai migranti annegati in mare, ai cadaveri maciullati nei pantani d’Ucraina o nella calura arsa dal sole di Israele e di Gaza. Spesso resi solo frame di video apparsi sui social; in quella macelleria digitale si consolida la fuga dal peso sostanziale della morte, dal suo valore di danza macabra educativa al senso profondo della vita.
Come ricorda A. Di Nola, ne La nera signora, la danza macabra, come prima l’ars moriendi, esplicava la funzione di un modello retorico, ovvero della funzione di livellamento della morte: le forme gerarchiche medievali erano sdilinquite dall’evento morte, il quale appunto nel disfacimento biologico delle carni equiparava nobile e plebeo. Violante ricorda, nella saggezza della cultura napoletana, il poema di Totò, ‘a Livella, in cui si registra l’eguaglianza ctonia della e nella morte, il suo valore di memento e di spirito educativo per chi rimane sulla terra. La moralizzazione della condotta esistenziale mediante il ricordare questo disfacimento, e questa eguaglianza necrotica, diveniva quindi un topos irrinunciabile. Il volume si sofferma poi sulla trasformazione di senso, contesto e significato della morte nell’epoca digitale.
Già D. Sisto, in La morte si fa social, scrive che se un tempo, al morire di una persona amata o di un parente si associava la fine del mondo, oggi al contrario la sua per quanto evanescente e fantasmatica persistenza, sia pure in pixel e linguaggio informatico, ci pone davanti alla reiterazione meccanica, ma dolorosissima, della corporeità che abbiamo conosciuto, amato, con cui abbiamo diviso gioie, sofferenze, attimi irripetibili. Una morte pop, digitale, priva di significato individuale, e trasformata in meccanizzazione industriale che sterilizza il senso del commiato. E così facendo si viene meno a quell’imperativo ricordato da Elias Canetti, “la morte abbatte tutto ciò che uno ha vicino, e quando si è sopraffatti dal dolore dice sorridendo: non sei affatto così impotente come ti figuri, puoi abbattere anche te stesso, e il tuo dolore con te. La morte appresta all’uomo i dolori dai quali essa stessa poi può liberare”. La morte stessa, a suo modo, ci ha sempre salvati.