Le lacrime della pugilatrice e il tradimento del “patto del ring”: senza lealtà sono solo botte
Angela Carini ha perso, si è ritirata dopo aver provato a resistere ai pugni troppo maschili di una sfidante che appare donna solo al Comitato Olimpico, mentre De Coubertin si arrotola nella tomba, per aver apprezzato a quanto arrivi la follia autodistruttiva del politicamente corretto. Il primo dei colpi, forti e poco interessati alla schermaglia, le ha slacciato il caschetto. Lei è andata all’angolo a farselo sistemare, è rientrata per prenderne un altro, troppo forte e tirato per sfondare il mento, troppo doloroso per l’animo di una disciplina che nasce dalla fatica, dal sacrificio, dal rispetto per chi condivide il combattimento.
Ha provato a resistere, Angela, la boxe è uno sport da ring, il condizionamento fisico che affronti ti insegna a dare e ricevere comunque colpi devastanti, ti prepara a soffrire, a combattere il tuo dolore prima del tuo avversario, a non arrenderti che all’ultimo secondo dell’ultima ripresa. Tutta l’etica della sofferenza e del sacrificio non è bastata, perché ci sta l’avversario più forte, più preparato tecnicamente, persino spiritualmente irraggiungibile. Quello che sai potrai difficilmente sconfiggere, con il quale ti cimenti comunque per coraggio e orgoglio, purché sia un bel combattimento, purché ne valga la pena. Ma ci sono anche quelli che per vincere ingessano le fasce o si cambiano genere all’anagrafe, con quelli non c’è fratellanza, non può resistere nessuna condivisione.
No, non sono le medaglie, alla fine, che motivano i campioni. Non sono solo quelle almeno, non i compensi milionari, che poi non appartengono ai non professionisti olimpici, non è la vittoria ottenuta a ogni costo, che ti spinge al sudore, allo sforzo fisico, a vincere il dolore sofferto dei colpi. Angela ha provato a combattere perché ha certo lavorato duro, in questi anni, si è di sicuro sacrificata senza risparmiarsi, ha costruito una carriera avanzando un jab corto alla volta, probabilmente confidava in quello che i grandi sportivi si aspettano dall’avversario, in quella lealtà che ha sempre spinto i campioni, gli eroi dello sport che sono stati in stragrande parte anche grandissimi uomini e donne.
La pugilatrice ha alzato i pugni di fronte al suo avversario aspettandosi quel rispetto, sacro per chi ha mai messo piede su un ring, di chi ti massacra di colpi in combinazione, ma poi viene e a stringerti in un abbraccio fraterno, di chi porta le tue stesse cicatrici, soffre i postumi degli stessi traumi. Si è trovata di fronte una sfidante con il corpo da uomo, portato all’Olimpiade da chi, pur di arrivare ad un oro olimpico in più, si è dimenticato il rispetto delle corde tese, ha abbattuto la fratellanza del sudore esausto, l’ha sepolta imbavagliata, mettendole magari una coroncina di latta, un trucco pesante e agghindandola di stracci fluo.
Angela Carini ha atteso il verdetto che già conosceva, non ha concesso l’abbraccio cercato meccanicamente dal suo vincitore, quello si dà a chi è fratello tra le corde tese, non ad una maschera qualunque. Poi è crollata sul ring, questa volta veramente, è ha pianto di rabbia e dolore, ma non è lei ad essere stata sconfitta. Al Museo Nazionale Romano c’è la statua del pugilatore, è un bronzo molto bello e famoso, perché raffigura l’atleta nel suo momento di riposo, forse dopo un incontro o un allenamento spossante: seduto, le spalle tornite un poco abbandonate, le mani stanche, i segni dei colpi e le cicatrici sul viso, le orecchie tumefatte, le sopracciglia spaccate dal caestus. Un corpo rotto, ma possente, che emana un equilibrio di umanità che solo la forza combinata alla sofferenza, solo lo spirito rafforzato dal sacrifico può dare. Al viso prepotente del vincitore di oggi, lasciatemi preferire le lacrime amare della pugilatrice tradita: c’è più spirito olimpico in una sola di quelle, che in tutte le vittorie a botte di testosterone di quell’altra.