Il punto. Dirlo al femminile? Non è oltraggio. Nell’epoca dello schwa è cosa “naturale” e giusta.
Ritengo che la declinazione al femminile di alcune qualifiche – se usata con ritegno, se non è una forzatura ideologica e se non provoca casi di riconosciuta cacofonia – non rappresenti un oltraggio alla lingua italiana. Anzi, può costituire persino un aspetto positivo, in un’epoca in cui incombe il feticcio della fluidità sessuale. Il motivo è semplice e indicativo: perché riverbera in ambito linguistico la presenza di due generi sessuali distinti.
Il problema, infatti, è quello opposto, cioè il tentativo di cancellare le desinenze maschili e femminili in ragione di inusitati simboli come l’asterisco (*) o lo schwa. Per questo risulta contraddittorio che una certa sinistra, nel tentativo bulimico di dare rifugio a ogni tipo di istanza inclusivista anche in grammatica, si faccia interprete sia dell’uso esteso di declinare al femminile sia dell’uso di asterischi e schwa che, al contrario del primo caso, annullano le differenze.
Apprendo che qualcuno, finalmente anche a sinistra, inizia a ragionare su questa incongruenza e rifiuta pertanto asterischi e schwa. Dopo il tentativo vano dell’Accademia della Crusca, l’auspicio è che tale slancio di buonsenso contamini la realtà verso cui si rivolge. Sarebbe una buona notizia, per la lingua italiana e per la nostra identità primigenia di uomini e di donne.