L’analisi. La “guerra giusta” al cambiamento climatico: che c’è. E va preso molto sul serio
L’ultimo Rapporto di valutazione dell’IPCC (International Panel on Climate Change, ipccitalia.cmcc.it) mostra la variazione della temperatura media mondiale rispetto a un periodo di riferimento (per convenzione il c.d. periodo preindustriale, la media 1850-1900), ed evidenzia che a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, la temperatura ha iniziato a crescere in modo costante, e con una rapidità mai vista almeno negli ultimi due millenni. Secondo la World Meteorological Organization, nel 2022 la temperatura media mondiale ha raggiunto il valore record di +1,15°C rispetto al periodo preindustriale. Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad una crescita della temperatura globale di circa 0,2 °C ogni dieci anni; e proseguendo su questa strada l’impegno preso a Parigi nel 2015, con l’Accordo sul clima ove i governi di tutto il mondo si sono impegnati a limitare il riscaldamento globale a +1,5 °C, rischia di sfumare nel giro di uno o due decenni al massimo. Se nella storia del clima sulla Terra hanno avuto un ruolo importante diversi fattori, del tutto naturali peraltro, come l’attività solare e le variazioni orbitali, tuttavia quello che si evidenzia in molte risultanze scientifiche, e tra queste proprio in tutti i rapporti dell’ IPCC, è una strettissima correlazione tra concentrazione di CO2 in atmosfera e temperatura terrestre: quando aumenta la prima, aumenta anche la seconda. Le attività umane hanno introdotto in atmosfera quantità sempre maggiori di anidride carbonica, passata da meno di 300 parti per milione (ppm) nel periodo 1850-1900 alle 418 di oggi, prodotta dal processo di combustione delle fonti fossili quali carbone, petrolio e gas naturale.
Le conseguenze del surriscaldamento globale sono evidenti, anche senza studiare i tanti report scientifici sull’argomento. Come si può leggere negli ottimi approfondimenti e rapporti di ItalyforClimate (italyforclimate.org) nel 2023 il numero di eventi estremi e i livelli di stress idrico confermano quanto l’Italia, trovandosi nell’hotspot climatico del Mediterraneo, sia fra i Paesi europei più colpiti dagli impatti della crisi climatica. Il 2023 è stato il secondo anno più caldo mai registrato in Italia, e in questo senso il 2024 non promette nulla di buono, con un’anomalia media pari a +1,07 °C rispetto alla media 1991-2020, di poco inferiore all’incredibile record del 2022 (+1,23 °C). Il numero di eventi meteoclimatici estremi registrati nel nostro Paese ha raggiunto un nuovo record, con quasi 3.400 episodi: ad essersi acuiti nel 2023 sono stati soprattutto i quasi 1.500 eventi a carattere di grandinate (fra cui non possiamo non ricordare quelle che hanno colpito il nord Italia nel mese di luglio), aumentate di quasi il 50% rispetto al 2022. Ma anche piogge intense, tornado e raffiche di vento hanno contribuito all’acuirsi degli eventi estremi, che nel complesso sono più che triplicati negli ultimi 5 anni. L’aumento di eventi estremi che vedono protagonista l’acqua, confermato anche nel 2023, ci ricorda anche quanto il nesso tra risorsa idrica e crisi climatica stia diventando sempre più evidente e rilevante, soprattutto in Italia, sancendo una nuova anormalità climatica permanente in cui il ciclo idrico è già cambiato e diventano sempre più frequenti i periodi in cui di acqua ce n’è troppa, come nel caso delle grandinate e delle piogge intense, o troppo poca, come nel caso della siccità, anche rappresentato dall’attuale grave crisi idrica in Sicilia.
Se sulle cause del cambiamento climatico – di origine antropica o causata da variazioni dell’orbita terrestre – ci sono state e ci sono, a tutti i livelli, molte accese polemiche e discussioni, di certo quello che concretamente possiamo fare è agire solo su quelle umane, non potendo ancora per adesso incidere ne’ sull’orbita terrestre ne’ sulla forza dei raggi solari.
La gravità della questione climatica ha ampiamente travalicato l’ambito strettamente ambientale ed è a tutti gli effetti uno tra i principali nodi sul futuro della sicurezza pubblica globale, che impatta in tutti i Paesi e in tutte le sfere economiche e sociali; è proprio per questo che oggi è quanto mai urgente agire, per invertire questa tendenza sia tagliando con estrema rapidità le emissioni sia realizzando le più urgenti opere di mitigazione dagli effetti del cambiamento del clima, evidentemente accelerando la corsa alla decarbonizzazione con una serie di azioni di politica industriale che riconducono al noto concetto di transizione energetica.
La guerra al cambiamento climatico è una questione di politica industriale
La transizione energetica è d’altra parte già in atto da almeno un ventennio e a ritmi crescenti, spinta certamente da interventi di supporto politico-ambientale ma sempre più anche da motivi economici: si pensi ad esempio alle rinnovabili per la produzione di energia e alle nuove tecnologie per i veicoli elettrici. Ma se è vero che gli scenari di riferimento prevedono per il prossimo futuro una penetrazione delle fonti decarbonizzate sul mercato elettrico mondiale tra l’80% ed il 100%, dall’attuale circa 20%, il problema è però temporale, data la maggiore velocità degli effetti del cambiamento climatico rispetto alle risposte delle amministrazioni e dell’industria.
Nelle trattative globali sul clima, a cominciare da quelle svolte nell’ambito della Conferenza Quadro sul Cambiamento Climatico dell’ONU, si ricerca continuamente la massima condivisione possibile se non addirittura la piena unanimità. Ma ovviamente le responsabilità, non sono tutte uguali e in materia di contrasto alla crisi climatica, in particolare. Le grandi economie globali da sole sono responsabili di oltre la metà delle emissioni globali di gas serra: Cina, Usa, India e Unione europea presentano situazioni molto diverse tra di loro, come evidenziato nel report di Italy for Climate, ma sono accomunate dalla grande rilevanza che hanno nel percorso di decarbonizzazione dell’economia mondiale e dalla rincorsa alla leadership del potere industriale nel sistema globale della transizione energetica.
La Cina è diventato il primo grande emettitore a causa di un rapido sviluppo economico che è stato alimentato in larghissima parte da un enorme sfruttamento di combustibili fossili e, in particolare, di carbone. Ma al tempo stesso è anche di gran lunga il Paese che più di tutti sta investendo sulle tecnologie della decarbonizzazione, a cominciare dalle fonti rinnovabili fino ad arrivare all’auto elettrica: solo nel 2023 ha investito quasi 700 miliardi di $ nella transizione energetica.La Cina, ove le emissioni di Co2 corrispondono al 30 per cento della quota globale, più che doppiando quelle Usa, sta seguendo un percorso di transizione energetica accelerato rispetto a quanto avvenuto in Occidente: dal 2010, le emissioni per unità di prodotto cinese si sono ridotte di circa il 55%, grazie a efficienza e fonti rinnovabili. Se il boom iniziale delle rinnovabili è stato un fenomeno essenzialmente europeo, trainato dagli incentivi pubblici, oggi la Cina, è il principale investitore nel settore delle fonti di energia rinnovabile: nel 2022 la Cina ha installato quasi la metà dei pannelli solari a livello planetario, diventando di gran lunga il principale produttore di elettricità dal sole, con quasi il 40 per cento della capacità mondiale a fronte dell’11 per cento degli Stati Uniti e del 6% della Germania. Il sistema industriale cinese ha un potere quasi assoluto anche nella produzione e commercializzazione di batterie elettriche agli ioni di litio, immettendo sul mercato tre quarti dell’intera offerta globale. Quindi, le automobili elettriche prodotte nella Repubblica Popolare Cinese rappresentano circa il 53% della produzione mondiale
Gli Stati Uniti sono sempre stati particolarmente sensibili agli umori della politica interna e hanno conosciuto alti e bassi negli ultimi decenni nelle politiche in favore del clima, hanno ancora le emissioni pro capite di gran lunga più elevate tra i grandi emettitori ma negli ultimi anni hanno iniziato a puntare sulla transizione energetica con maggiore determinazione. E con l’Inflaction Reduction Act, dotata di un budget di 738 miliardi di dollari, dei quali 391 miliardi saranno per l’energia e il cambiamento climatico, la politica industriale statunitense, mira a stimolare la domanda e soprattutto a rilanciare il sistema industriale nel territorio americano. Ad esempio ogni famiglia americana potrà accedere a 7.500 dollari per l’acquisto di una nuova auto elettrica, ma l’auto dovrà essere made in USA, o comunque assemblata nel territorio americano. Le batterie, elemento strategico delle macchine elettriche, dovranno essere prodotte o assemblate in Nord America, con una quota progressivamente crescente dal 50% del 2023 al 100% del 2029. L’Ira si pone gli obiettivi di controllare la catena del valore della green economy, di rilocallizare negli USA la green economy e chiarisce senza fraintendimenti la direzione statunitense per la riconquista del potere industriale mondiale nell’era della transizione ecologica: riportare l’industria al centro del territorio americano e sviluppare adeguate capacità tecnologiche e produttive nazionali per la decarbonizzazione.
L’India, che ha appena scavalcato l’Unione europea diventando il terzo emettitore globale, presenta livelli di emissioni ancora molto bassi ma con 1,3 miliardi di individui e un grande bisogno di migliorare i propri standard economici, se non impronterà fin da subito il suo sviluppo futuro a un modello economico e industriale decarbonizzato da sola manderà all’aria qualsiasi tentativo di limitare il riscaldamento globale come concordato a Parigi.
L’Unione europea fino ad oggi è stata leader nella lotta alla crisi climatica e nella promozione della transizione energetica, come dimostra il taglio delle emissioni di quasi il 30% dal 1990 a oggi e gli obiettivi ambiziosi al 2030 e oltre. La risposta dell’Unione Europea si basa sul Green Deal Industrial Plan, ovvero sull’ insieme di interventi previsti dai principi della “Autonomia Strategica Europea”, con l’obiettivo di attivare le dinamiche industriali continentali per la lotta al cambiamento climatico e di tutelare le tre aree strategiche Energia, Difesa, Tecnologia. Il Green Deal Industrial Plan si può considerare la risposta politica europea al predominio cinese nelle filiere della transizione energetica e all’Ira americana, affinché l’Europa ribalti l’equilibrio di potere nelle catene di approvvigionamento più critiche con l’obiettivo di sostenere gli investimenti delle industrie che operano nelle tecnologie pulite, rilanciando la loro competitività sui mercati globali ed effettuando la transizione net-zero carbon senza creare nuove dipendenze. L’Europa che ha sviluppato negli anni una leadership significativa soprattutto nello sviluppo di un’articolata strategia legislativa contro il cambiamento climatico, rischia di posizionarsi come ricco mercato di sbocco dei proprietari delle materie prime e delle tecnologie – batterie, pale eoliche, panelli fotovoltaici, inverter, auto elettriche – della transizione energetica. La sfida, complessa, è proprio quella di riuscire a sviluppare leadership industriale, con nuovi player sul mercato globale e una competizione sempre più spinta proprio sulle tecnologie e sulla innovazione green.
La guerra al cambiamento climatico e il posizionamento dell’Italia
Nel quadro della guerra al cambiamento climatico, in un recente e interessante lavoro Italy for Climate (ItalyforClimate.org) ha messo a confronto le performance dei 27 Stati membri, misurandole su 22 indicatori ripartiti in otto aree tematiche. Le prime quattro sono relative ai pilastri di una strategia climatica, ossia emissioni di gas serra, efficienza energetica, fonti rinnovabili e vulnerabilità agli impatti del riscaldamento globale.
L’Italia presenta ancora emissioni pro capite di gas serra migliori della media europea (nel 2022 7,1 tCO2eq contro 7,8) anche se più alte di Spagna e Francia. Purtroppo, nel corso degli anni le ha ridotte troppo poco, facendo segnare un -20% dal 1990 al 2022 contro un taglio medio dell’Unione del 30% e il quasi -40% della Germania. In particolare, questa performance negativa è determinata in gran parte dall’andamento delle emissioni di edifici e trasporti, i due principali settori posti sotto Regolamento Effort Sharing. Il 2023 potrebbe però diventare, per l’Italia, l’anno con la più alta riduzione delle emissioni di gas serra negli ultimi 30 anni, anche compatibile con gli obiettivi climatici al 2030 se saremo in grado ovviamente di mantenere questo ritmo anche nei prossimi anni. Il taglio del 2023, stimato attorno a -6,5% rispetto al 2022, è il più significativo mai registrato in concomitanza di una crescita economica (+0,9% , dati ISTAT).
La quota di rinnovabili sul consumo finale complessivo di energia in Italia è inferiore alla media europea (19% contro una media del 23%) ma anche a quelle di Spagna, Francia e Germania. Anche guardando alle sole rinnovabili elettriche, nel 2022 in Italia queste si fermano al 37% dei consumi contro, una media europea del 41% e a valori prossimi o superiori al 50% di Spagna e Germania. Con quasi 6 GW di nuova potenza installata nel 2023 l’Italia fa un salto in avanti notevole rispetto agli anni precedenti, anche se è ancora dietro Olanda e Spagna e lontanissima dai 18 GW installati in Germania.
Per quanto riguarda l’efficienza energetica, i consumi pro capite di energia, anche grazie a un clima mite, sono leggermente migliori della media europea (1,9 tep all’anno contro 2,0). Anche in questo caso, però, è il trend a preoccupare: i risparmi conseguiti tra il 2000 e il 2021, pari al 19%, mettono l’Italia al terz’ultimo posto nella classifica dei 27 e dietro a tutte le altre grandi economie europee.
In Italia il numero di eventi meteoclimatici estremi in rapporto alla superficie nel 2023 è stato di poco inferiore alla media europea. Tuttavia, i costi dei cambiamenti climatici sostenuti dal 1980 al 2022 – oltre 1.900 euro per abitante – sono più alti della media europea anche se di pochissimo inferiori a quelli di Francia, Spagna e Germania. Ma, rispetto alla media europea e alle altre grandi economie, in Italia si rivela molto più bassa la quota di questi danni coperta da assicurazione (5% contro una media del 20%).
Nel report emerge una rappresentazione di un Paese dalle grandi potenzialità ma che non sta credendo fino in fondo nelle proprie capacità e che non sta correndo abbastanza, rischiando in questo modo perdere progressivamente leadership nei settori e nelle tecnologie su cui stanno già oggi investendo i mercati globali. Tuttavia i risultati ottenuti nel 2023, tanto per la riduzione delle emissioni quanto per la crescita delle rinnovabili, fanno sperare in ritmi di sviluppo più rapidi. Anche perché, come noto, la questione climatica si intreccia con il problema della sicurezza energetica: L’Italia è fra i Paesi europei con la più alta dipendenza energetica dall’estero, proprio a causa dell’import di combustibili fossili. Nel 2023 il peso dell’import sul fabbisogno di energia è stato intorno al 77%, in lieve calo rispetto al 2022 soprattutto per la minore domanda di gas. Per la prima volta nel 2023 la Russia, il Paese da cui storicamente l’Italia acquistava la maggior parte di combustibili fossili, è uscita dalla top 10 dei Paesi da cui dipendiamo per l’energia, avendo quasi azzerato l’import di tutte le fonti, incluso il gas. Ad oggi Algeria e Azerbaigian sono i due Paesi da cui importiamo più combustibili fossili (sia gas che petrolio), con il GNL che registra una forte crescita.
Si fa qui notare che l’Italia è riuscita a ridurre la dipendenza energetica in modo strutturale solo fra il 2008 e il 2014, grazie alla crescita delle rinnovabili, poi fortemente rallentata sino al 2022. La produzione elettrica da rinnovabili nel 2023 è finalmente tornata a crescere, per la parziale ripresa dell’idroelettrico (che ha recuperato circa il 60% del crollo registrato nel 2022), e per la crescita dell’eolico (+15% rispetto al 2022) e del fotovoltaico (+11%). Queste due fonti insieme, secondo i dati di Terna, nel 2023 hanno prodotto quasi 55 TWh, arrivando da sole a rappresentare, per la prima volta nella storia dell’Italia, oltre il 20% della produzione nazionale di elettricità. Tuttavia anche nel 2023 la crescita dei nuovi impianti eolici e fotovoltaici in Italia è stata più lenta che in altri Paesi UE, anche se il distacco si è leggermente ridotto. La Germania si conferma di gran lunga il Paese UE più attivo, con 18 GW di nuovi impianti (di cui ben 14 solari), seguita da Spagna (9 GW) e Olanda (7 GW). La Polonia (5,8 GW) fa poco meglio dell’Italia mentre la Francia si ferma a 4,8 GW. Con 5,7 GW, il 2023 registra in Italia una buona ripresa delle nuove installazioni in particolare di fotovoltaico, confermando l’inversione di tendenza iniziata già nel 2022. A trainare la crescita sono i +5,2 GW di fotovoltaico, da ricondurre per il 43% al settore residenziale e per il 35% al settore commerciale e industriale (anche in risposta al caro energia). A fine 2023 risultano installati oltre 1,3 milioni di impianti fotovoltaici nel settore residenziale, a cui si aggiungono quasi mezzo milione di batterie. In appena due anni abbiamo quasi raddoppiato il fotovoltaico a servizio delle abitazioni, con quasi 7 GW di potenza attualmente installata in grado di soddisfare oltre un decimo di tutti i consumi domestici: per centrare gli obiettivi di decarbonizzazione dovremmo intervenire ogni anno su quasi un milione di abitazioni. Altri segnali positivi emergono dai settori produttivi. Il settore industriale, molto importante per la seconda manifattura europea, presenta ad esempio un valore medio di consumi di energia per ogni euro di valore aggiunto prodotto migliore della media, il che posiziona il nostro Paese nella top ten della classifica europea. Come anche più alti della media europea sono i risparmi energetici nell’ultimo ventennio e il livello di elettrificazione raggiunto, segnali di un settore ancora molto dinamico. Ma ancora meglio fa il comparto agricolo, anche questo una eccellenza produttiva a livello europeo e non solo, che presenta i livelli di emissioni di gas serra per euro di valore aggiunto prodotto più bassi d’Europa . A questo si aggiungano la posizione di leadership mondiale nel settore idroelettrico, già trattato in un precedente articolo, così come gli ottimi risultati ottenuti dal sistema industriale italiano nell’economia circolare.
La forte crescita degli impianti di energia rinnovabile nel 2023 mostra chiaramente il grande potenziale del nostro paese per la decarbonizzazione del sistema energetico, e anche per lo sviluppo di una filiera industriale nazionale. L’Italia potrebbe giocare un ruolo di primo piano nell’arena della transizione energetica globale, tanto per le potenzialità di installazione di energia rinnovabile quanto per la produzione di sistemi e tecnologie per la decarbonizzazione . Il grande ritorno della cultura e della politica industriale è la via prioritaria per la guerra al cambiamento climatico e per l’indipendenza energetica: occorre tramutare in pratiche industriali quanto politicamente annunciato negli ultimi anni. Tornare a produrre, e in tempi rapidi, puntando su nuove tecnologie e materie prime per la transizione energetica competitive con quelle dominanti (non c’è solo il litio, che comunque non è infinito ed è evidentemente di dominio cinese). La questione energetica e’ certamente determinante per la lotta al cambiamento climatico, e la direzione strategica non può che dipendere da una scelta di politica industriale. L’Italia può e deve giocare un ruolo da protagonista per la decarbonizzazione del sistema energetico mondiale.