L’Etna ribolle di lava e di energia. A “muntagna” viva, soffio divino: madre e simbolo di un popolo

18 Ago 2024 10:52 - di Paolo Di Caro

A “muntagna”, come la chiamano i catanesi, sta mettendo a dura prova i nervi degli abitanti che vivono alle pendici del vulcano attivo più alto d’Europa. Cenere in abbondanza, esplosioni, fontane di lava, una attività piroplastica che non si vedeva da anni: l’Etna ribolle, come accada da secoli, di lava ed energia, modifica il proprio profilo, si eleva verso il cielo e si tuffa nel mare, in una combinazione estetica e paesaggistica con pochi eguali al mondo. L’aeroporto della Città viene chiuso durante le fasi più violente dei fenomeni, causando, come la cenere, enormi disagi agli indigeni e ai turisti, forse più ammirati che impauriti da questo spettacolo. Eppure il vulcano, a muntagna, è lì da secoli, ha forgiato popolazioni e condizionato l’economia del territorio, un metronomo per la natura, la fauna, la flora, le scelte agronomiche.

L’Etna è un mito fondativo della storia dei popoli: dall’ira di Poseidone alla prigione di Polifemo, da fucina per il Dio Efesto al mito di Tifeo, il vulcano ha ispirato poeti, letterati, artisti, con una tradizione scritta e orale fra le più prolifiche. Ne scriveranno Empedocle, Diodoro Siculo, Pindaro, Tucidide, Virgilio; e poi Bembo, Guy de Maupassant e Goethe, fino a diventare una tappa irrinunciabile dei “Gran Tour” dei ricchi rampolli dell’aristocrazia europea e degli artisti, che dipingeranno l’Etna e la canteranno in versi, nelle sue molteplici versioni. La “matrigna” ha più volte, nei secoli, costretto gli abitanti a spostarsi dalle loro abitazioni; ha seppellito Catania, più volte ricostruita, come nel caso dell’eruzione del 1669, e cancellato interi paesi, come nel caso di Misterbianco, dove la storia è riaffiorata dal passato con i resti rinvenuti della Chiesa di Campanarazzu e il suo bagaglio di memorie rinascimentali.

Proprio quell’eruzione è un po’ il simbolo di come la forza distruttiva e la potenza di fuoco dell’Etna siano, in fondo, la vera forza per le popolazioni a queste latitudini. La città sepolta, Catania, si ricongiunse con il mare; il Castello Ursino, maniero federiciano una volta avamposto nel trittico dei castelli con Siracusa ed Augusta, verrà risparmiato insieme a una porzione delle Mura di Carlo V, diventando simbolo di Catania, della sua resistenza, e convivenza, con il vulcano. Una dimensione metafisica, resa ancora più immaginifica dai giochi di luce nei plumbei e tersi cieli estivi illuminati dalla lava che fuoriesce copiosa.

Visitare oggi il capoluogo etneo significa respirare la cenere, fare i conti con le difficoltà logistiche, ma anche immergersi nell’atmosfera magica del “Colosseo nero”, ancora visitabile al centro della città con i suoi cunicoli ipogei e le colonne poggiate sulla lava, fondamenta fisiche e spirituali per i figli di Agata, la patrona celebrata a febbraio e nell’appendice estiva agostana. Anche la natura, apparentemente sfregiata dalla livella dei fronti lavici, beneficia, a lungo andare, della fertilità e dalla ricchezza dei suoli, come oggi accade con i pregiatissimi vini dell’Etna, ricercati nel mondo per le loro caratteristiche peculiari e la riconoscibilità del terroir, la complessa risultante fra territorio, clima, vitigno e tradizione umana.

A Muntagna è un po’ la metafora e il simbolo di una Sicilia che nella propria origine vulcanica e nella natura cangiante dei suoli può trovare la ragione della propria esistenza e della centralità mediterranea: una centralità non immobile, ma dinamica, rivoluzionaria, veemente e ordinatrice come un fiume di lava, che prorompe e poi si placa all’improvviso, lasciando agli uomini e alle donne di questa terra il compito di ricostruire, sulla pietra, case ancora più solide da lasciare in eredità alle generazioni future. Il disagio di questi giorni di eruzione, fra foto spettacolari e distese di terra nera a riempire strade e polmoni, è nulla al confronto di questo “soffio divino” che è la benedizione di vivere ai piedi di un vulcano attivo.

Lo sapeva bene Filippo Tommaso Marinetti, affascinato dal vulcano tanto da visitarlo spesso e trarne ispirazione.
Forse, chissà, anche per quel manifesto del Futurismo nel quale si legge, come se ci si trovasse ispirati, di notte, in mezzo a una delle immense sciare vulcaniche dal paesaggio lunare, “ritti, sulla cima del mondo, lanciamo ancora la nostra sfida alle stelle”. É ora di rendersene conto, forse, e proprio la “lezione” e la storia secolare dell’Etna ce lo dovrebbe raccontare in maniera plastica e incredibilmente moderna: nessun futuro può essere anche solo immaginato senza che questo sia costruito sui valori condivisi che le civiltà hanno costruito, senza sacralità e credenze, concezioni, istituzioni e modelli di comportamento che fanno parte del nostro patrimonio culturale e genetico.

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