L’intervento. L’autonomia e lo scontro fra i tre modelli: responsabilità contro cacicchi e rassegnazione

15 Ago 2024 10:03 - di Ruggero Razza*

C’è un disegno, neppure troppo celato, nella scelta di utilizzare la proposta referendaria sull’autonomia differenziata come clava per spaccare l’Italia in nome del rischio, surreale, che l’Italia possa spaccarsi davvero. Per un istante tralasciamo i temi di merito, che non servono un granché. Per replicare, infatti, basterebbero due o tre concetti, il primo legato all’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (i Lep) in nome dei quali nessun cittadino potrà ricevere investimenti dello Stato inferiori allo standard. Oggi, va da sé, non è così e la bilancia pende certamente contro il Sud e non a suo favore. Persino sulla sanità (prima o poi ci rifletteranno anche i commentatori televisivi come il mio amico Nino Cartabellotta) il passaggio da Lea a Lep significa un incremento di risorse a Sud nel riparto tra le Regioni del fondo sanitario (mai così alto come oggi) perché si accentuerà la quota dell’investimento pro-capite che oggi è calmierata da vecchie logiche di accordi tra Regioni che hanno, a prescindere dal colore politico del vertice, sempre privilegiato quelle di destinazione finale della mobilità passiva (che, peraltro, con un aumento diretto dell’investimento a Sud e con un nuovo criterio di riparto della mobilità potrebbe a sua volta essere enormemente calmierata).

La vera questione politica – che non è, appunto, una questione di merito della legge attuativa della riforma costituzionale targata centrosinistra – sta tutta a Sud: è il Mezzogiorno il campo di sfida e nel Mezzogiorno si scontrano oggi tre modelli diversi che, inevitabilmente, vanno spiegati. C’è il modello dei “cacicchi”, un tempo sgraditi alla segretaria Schlein, che ricalca (non solo a sinistra, come alcuni rigurgiti di passato evidenziano in Sicilia) un’idea di Sud sottoposto al controllo di classi dirigenti che ne orientano il consenso attraverso l’utilizzo del potere, con spinte clientelari che non si discostano molto da alcune stagioni del passato e che non brillano per capacità di spesa e visione politica (resto agli eufemismi per carità di Patria). Queste classi dirigenti, che a parole rivendicano i soldi non investiti, il divario territoriale, Roma lontana e matrigna, in realtà non amano la parola che sta accanto al concetto di autonomia: responsabilità. Perché a sua volta la responsabilità si accompagna al controllo della spesa, alla qualità dell’azione amministrativa. Capirete che in nulla differiscono, nella categoria del notabilato arroccato, la Puglia di Emiliano, di cui si ricordano in piena campagna elettorale le visite agli apparati sanitari della Regione e la consegna del contratto di stabilizzazione a ciascun precario, la Campania di De Luca, con la sua “lenzuolata di liste e candidati come Dio comanda” (cit.) o la Sicilia delle eterne liquidazioni portate avanti per coprire assunzioni elettorali a raffica, di cui ancora paghiamo il conto oggi.

C’è poi l’assistenzialismo diffuso, l’idea che bisogna solleticare una atavica disaffezione al sacrificio di quanti, a differenza di chi il lavoro non lo trova davvero e per questo va aiutato, in realtà preferiscono uno stipendio fisso dallo Stato (anche il reddito di cittadinanza aveva questo fine) o sotto forma di assunzione clientelare (celebre la massima: “lo stipendio è dovuto, il lavoro si paga a parte”, tipica di una certa subcultura difficile a morire ed erede di quel mondo in cui nella pubblica amministrazione si entrava per raccomandazione o attraverso non encomiabili scorciatoie). Anche qui, la contrapposizione all’autonomia, nel senso di responsabile gestione delle risorse perché siano beneficio di tutti in modo eguale, è un fatto scontato, ma – a differenza della prosopopea con cui parlano quelli delle “classi dirigenti” di abbiamo detto prima – la critica è molto meno riflettuta e molto più “di pancia”: ci vogliono levare i soldi e portarli al Nord! E poco importa che non sia così.

La terza ed ultima espressione del Sud, quella più contemporanea, è incarnata da Fratelli d’Italia: se il Sud è messo nelle condizioni di correre, farà meglio del passato e ridurrà il divario con il Nord attraverso il mercato, che si avvantaggia degli investimenti (mai così copiosi) e produce lavoro. Ho fatto parte di un governo regionale che, nella volontà del suo Presidente, questa concezione l’ha sposata e cercato di metterla in pratica, salvo essere infilzato da quelli che vogliono che tutto appaia diverso, perché non cambi mai. Ma oggi, con il governo di Giorgia Meloni, la musica è cambiata e sono i numeri a non mentire, quei numeri che non a caso vengono nascosti, affinché l’alleanza tra cacicchi e fancazzisti possa sorreggersi a vicenda. Il Pil cresce, gli investimenti ammontano a decine di miliardi, il lavoro giovanile e femminile si spinge in alto, le Zes sono arrivate a migliaia di progetti finanziati con il quadruplo delle risorse investite, il turismo vola, la manifattura e l’export crescono.

È stato il quotidiano Il Mattino – con qualche significativa presa di posizione del quotidiano La Sicilia – a guidare un senso di riscossa di questa stagione che dall’energia alla blu-economy, dalle infrastrutture strategiche a quelle minori, sta provando a disegnare un Sud che tra meno di dieci anni potrebbe aver raggiunto la sua centralità economica in un Mediterraneo nuovamente con l’Italia protagonista grazie al Piano Mattei. Ecco, la posta in gioco è tutta qui: il Sud del futuro contro la rassegnazione. Il Sud che traina l’economia italiana contro l’immagine sempreverde di classi dirigenti che strillano a casa e trattano posti con Roma. Noi sappiamo quale sia la parte giusta e grazie al lavoro di Giorgia Meloni, di Raffaele Fitto, di tutto il governo nazionale sapremo finalmente dare impulso e forza al Sud migliore: quello che non si arrende e crede nel suo futuro.

*Eurodeputato FdI

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