Da Starmer a von der Leyen, il successo del pragmatismo di Meloni mette al tappeto la sinistra ideologica
La presentazione della Commissione europea da parte di Ursula von der Leyen, con il riconoscimento della vicepresidenza esecutiva a Raffaele Fitto, ha confermato che anche a Bruxelles si afferma una linea del pragmatismo che guarda ai fatti e non alle bandiere ideologiche. Ieri la dimostrazione plastica di quanto questa linea sia proficua si è avuta anche dall’incontro tra Giorgia Meloni e Keir Starmer, che è stato un indubbio successo. I due leader hanno parlato con vantaggio reciproco delle relazioni tra i due Paesi, di immigrazione e partnership commerciali. Ma questo è solo l’effetto, non la causa di ciò che ha determinato la buona riuscita della visita a Roma del premier britannico. A monte c’è infatti proprio la politica del pragmatismo che caratterizza entrambi e che entrambi perseguono con convinzione, a dispetto delle critiche, degli scetticismi e di quelli che talvolta assumono i tratti di veri e proprio boicottaggi.
È noto che Starmer ha ignorato gli altolà interni ai laburisti affinché non si avvicinasse a un “governo neofascista”; ancora più noti sono, a queste latitudini, i costanti e spesso contraddittori allarmi della sinistra italiana sulla capacità di Meloni di tessere relazioni internazionali.
In questo ambito si inseriscono anche le recenti lagnanze della sinistra politica e d’opinione sui presunti passi falsi che avrebbero messo a rischio la centralità dell’Italia in Europa, definitivamente messe a tacere oggi da von der Leyen con il passaggio sull’importanza del nostro Paese (e respinte al mittente anche per quanto riguarda Ecr). Per fare un altro esempio, ci sono quelle che riguardano il nostro rapporto con gli Usa, destinate probabilmente a riproporsi ancora da qui a novembre. Nei mesi passati abbiamo letto numerose congetture sulle fantomatiche difficoltà del premier nel gestire le relazioni con i protagonisti d’Oltreoceano e sulle conseguenze che ne deriverebbero dopo le presidenziali, qualunque sia l’esito. La tesi è che, nell’incertezza, Meloni si sarebbe mossa maldestramente nei rapporti con Biden e Trump, tentando di riposizionarsi sul Tycoon quando non c’era partita, per ritrovarsi poi spiazzata con il cambio in corsa in casa democratica.
Meloni, e con lei il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani, hanno dovuto così ribadire a più riprese che i rapporti tra due storici alleati non cambiano in base al colore dei governi. Un’ovvietà, che però da noi è stato necessario ripetere allo sfinimento. Perché? Perché non per tutti è così ovvio. Lo è per chi fa del pragmatismo la propria cifra. Non lo è per chi si fa illuminare la strada dall’ideologia.
Anche su questo abbiamo esempi: il clamoroso scivolone del premier canadese Justin Trudeau che al G7 di Hiroshima chiese a una incredula Meloni rassicurazioni sui diritti della comunità Lgbt o l’altrettanto sorprendente sortita della ministra spagnola Ana Redondo sui presunti attacchi al diritto all’aborto. Entrambi si erano lasciati ingannare dalle sirene della sinistra nostrana, avendo evidentemente un orecchio ideologicamente ben predisposto ad ascoltarle.
L’approccio ideologico è appannaggio privilegiato della sinistra, ma non tutta la sinistra fortunatamente è così. Il caso Starmer lo dimostra, come prima l’aveva dimostrato il caso del premier socialista albanese Edi Rama, che con Meloni è protagonista del piano per gli immigrati che il collega britannico è venuto ad approfondire a Roma. Anche Rama è finito oggetto di strali ideologici, tanto che c’è stato chi – Pd in testa – ha chiesto che venisse espulso dalla famiglia dei socialisti europei. L’incontro di ieri, per l’ennesima volta, ha messo in luce l’assoluta stupidità politica di quella sollevazione.
Il vero punto di tutta la questione però è quanto la scelta di una dinamica ideologica o di una dinamica di pragmatismo si tramuti in dinamica di potere, inteso nella sua accezione positiva di capacità di contare per affermare il proprio interesse nazionale o anche solo il proprio programma politico. Il più scaltro nell’usare le dinamiche ideologiche come dinamiche di potere finora era parso Emmanuel Macron, ma il suo cinismo ha presentato un conto molto salato alla Francia e lo sta presentando anche a lui. Per altri leader di simile impostazione non va meglio.