Il diritto alla felicità: troppo socialismo nel libro di Elly Schlein. La chiave non è lo Stato, ce lo dice la filosofia
Nel panorama politico contemporaneo, il concetto di “diritto alla felicità” sta emergendo come un nuovo terreno di scontro ideologico. Elly Schlein, nel suo recente libro L’imprevista, propone una visione progressista, in cui il diritto alla felicità è legato a una serie di interventi dello Stato. Volti a garantire giustizia sociale, equità economica e libertà dai vincoli sociali, culturali e discriminatori. Ma questa concezione non è l’unica visione possibile e rischia di semplificare eccessivamente una questione profonda e complessa come la felicità umana. Per comprendere la portata di questo dibattito è essenziale volgere lo sguardo all’antichità.
Nell’antica Grecia è una vita benedetta dagli dei e legata alla virtù
Nell’antica Grecia, il concetto di “eudaimonia” – che noi traduciamo imperfettamente come “felicità” – originariamente evocava l’idea di una vita benedetta dagli dei, caratterizzata da prosperità e abbondanza materiale. Filosofi come Platone e Aristotele, invece, la concepivano come il pieno fiorire dell’essere umano, intrinsecamente legato alla virtù e alla realizzazione del proprio potenziale. Democrito, anticipando millenni di riflessione filosofica, dice che la felicità “non consiste nel possesso del bestiame e neppure nell’oro, l’anima è la dimora della nostra sorte”. Questa visione, che pone l’accento sull’interiorità e sulla responsabilità individuale, si pone in netto contrasto con l’idea moderna di felicità come condizione garantita da un’entità esterna, lo Stato o il mercato.
Il pensiero romano: è indipendente dalle circostanze esterne
Il pensiero romano portò ulteriori sfumature al concetto. Seneca vide la felicità come uno stato indipendente dalle circostanze esterne, radicato nella virtù personale e nell’accettazione serena del proprio destino. Cicerone aggiunse l’importanza della vita attiva e delle relazioni sociali nella ricerca della felicità, valorizzando l’impegno nella vita pubblica. Questa evoluzione del concetto di felicità nell’antichità – da bene esterno a qualità interiore legata alla virtù, alla saggezza e all’equilibrio dell’anima – offre un interessante contrasto con alcune interpretazioni moderne che vedono la felicità come un “diritto” che dovrebbe essere garantito dallo Stato.
L’evoluzione moderna del concetto di felicità
Il dibattito sulla felicità non nasce con le proposte contemporanee come quelle di Schlein, ma ha una lunga storia che attraversa il pensiero moderno. Nel corso del XIX e XX secolo, il concetto di felicità e il suo rapporto con la politica si sono evoluti in diverse direzioni. L’utilitarismo di Bentham e Mill, con il suo principio della “massima felicità per il massimo numero”, ha influenzato significativamente le politiche sociali moderne. Tuttavia, questo approccio rischia di sacrificare le libertà individuali sull’altare di un presunto bene collettivo. Il socialismo, d’altra parte, ha posto l’accento sulla giustizia sociale e l’uguaglianza come presupposti per la felicità collettiva. Schlein sembra allinearsi a questa tradizione quando propone misure come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Schlein si allinea alla tradizione socialista
In netto contrasto con le visioni precedenti, il liberalismo classico ha sempre sottolineato l’importanza della libertà individuale come chiave per la felicità. Friedrich Hayek avvertiva dei pericoli di un eccessivo intervento statale. L’idea che lo Stato possa e debba garantire la felicità attraverso politiche redistributive e interventi pervasivi si basa su presupposti discutibili. Come argomentato da Hayek, nessuna autorità centrale può possedere tutte le informazioni necessarie per decidere cosa renda felici le persone. Le proposte di Schlein, come la riduzione dell’orario di lavoro, presuppongono erroneamente che tutti traggano felicità dalle stesse cose. Inoltre, politiche ben intenzionate possono avere conseguenze negative. Ad esempio, un eccessivo welfare può disincentivare l’iniziativa personale. Misure come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario potrebbero minare la competitività e, paradossalmente, ridurre il benessere.
Il diritto alla felicità? No, il diritto di perseguirla
Una prospettiva conservatrice sulla felicità si basa invece su tre pilastri fondamentali: libertà economica, responsabilità individuale e sicurezza. Studi empirici, come l’Indice di Libertà Economica della Heritage Foundation, mostrano una correlazione positiva tra libertà economica e benessere generale. La felicità deriva in larga parte dal senso di realizzazione che si ottiene aggiungendo i propri obiettivi. Lo Stato non dovrebbe privare i cittadini di questa opportunità di crescita personale. Allo stesso tempo, un ambiente sicuro e stabile è necessario per esercitare la propria libertà. Questo include non solo la sicurezza fisica ma anche la certezza del diritto e la stabilità economica.
Lo Stato non è fornitore diretto di felicità
In questa visione, lo Stato non è un fornitore diretto di felicità, ma un facilitatore. Il suo ruolo dovrebbe essere quello di garantire lo stato di diritto e la sicurezza, promuovere la libertà economica attraverso una regolamentazione leggera e tasse basse, incoraggiare la responsabilità personale e sostenere una rete di sicurezza sociale minima per aiutare chi si trova in difficoltà temporanee. Esistono altre visioni che cercano di conciliare benessere individuale e collettivo. L’economia civile, un concetto che affonda le sue radici nel pensiero di Antonio Genovesi e rielaborato da studiosi contemporanei come Stefano Zamagni, propone un modello che valorizza la reciprocità e il bene comune accanto al profitto.
L’economia buddista: Piccolo è bello
L’economia buddista, introdotta da E.F. Schumacher nel suo Piccolo è bello e recentemente ripresa da Clair Brown, suggerisce un approccio che bilancia bisogni materiali e spirituali, enfatizzando la sostenibilità e il benessere collettivo. Queste prospettive, pur interessanti, rischiano di sottovalutare l’importanza della libertà individuale e dell’iniziativa privata. Il vero “diritto alla felicità” non consiste nel ricevere benessere dallo Stato, ma nell’avere l’opportunità di perseguirlo liberamente e responsabilmente. Come affermava Thomas Jefferson nella Dichiarazione d’Indipendenza, si tratta del diritto al “perseguimento della felicità”, non alla felicità stessa. La vera felicità nasce dalla libertà di scelta, dalla responsabilità personale e dal senso di realizzazione che deriva dal superare le sfide della vita. Il ruolo dello Stato dovrebbe essere quello di creare un ambiente in cui ogni individuo possa fiorire secondo le proprie capacità e aspirazioni, non quello di imporre una visione uniforme di ciò che costituisce una vita felice.