Il libro. Prima che ti svegli: la coppia al timer di Angelo Mellone che profuma di “Giglio rosso”
Perché quel patto di fine coppia tra lei P. e lui D. ? Quella sorta di Dat di un amore? Qual è il significato di quel dies ad quem programmato, con tanto di giorno e anno ? E dopo “x” di tempo trascorso insieme ? É soltanto un razionale ripararsi dal naufragio, «dato che razionalmente nessun rapporto può durare più di un tot» ? Perché «il buon senso impedisce di pensare sulla lunga durata un rapporto»: è davvero un calcolo, un geometrale? O è altro ? É ansia di non morire ? É voglia di anabasi ?
Un dubbio che, leggendo l’ultima (non) finzione letteraria di Angelo Mellone (Prima che ti svegli, Capire Edizioni), può attaccarsi alle palpebre: il fruire umanissimo di frammenti di infinito che ci spettano, possiamo viverlo fino in fondo, come e con gli altri? O vale la pena scommettere l’assoluto, provando l’ascesi poetica, pagando il prezzo del proprio sangue di persone e di coppia? Rompere così la barriera del banale, comune e quotidiano ? É un sofferto costeggiare, a distanza, le quattro melanconiche Notti bianche dostoevskjiane, quelle russe tenebre incantevoli «come ci possono forse capitare solo quando siamo giovani»? Ma D. e P., figli di un altro secolo, non sono ragazzi: sono belli grandi e i ragazzi, pure adulti, li hanno come prole. Ciononostante, possono cercare – più lui che lei – la risposta sublime facendo sacrificium del proprio vissuto con fatica costruito?
Si può davvero disvivere la propria vita, tendendole «questo tranello del patto di separazione, per tenere a bada ciò che stava per accadere, lasciarlo a distanza di sicurezza»? Cercare di trascenderne i non evitabili limiti ? Forse l’eutanasia al timer di un cammino a due, di un sentimento forte, vorrebbe essere un modo contemporaneo di pareggiare le vette estetiche di quegli amanti giovinetti che, certi di avere raggiunto l’estasi massima dell’amore terreno, vollero fermarsi e volare via. É una reinterpretazione secolarizzata dei due teneri del Giglio Rosso di Anatole France? «E piangevano spesso, pensando che la vita, per loro, ormai felici, potea dirsi finita», fino a masticare la misterica Pianta del Silenzio per addormentarsi per sempre, custoditi dalle colombe: non svegliarsi mai più. Ma perché i «due begli innocenti hanno voluto morire? Oh! darling; perché si sentivano felici quant’è possibile esserlo, e non desideravano più niente». Una cosa disperante. E perché viviamo allora? : «Noi viviamo nell’attesa di ciò che Domani, Domani, re del paese delle fate, ci recherà nel suo mantello nero ed azzurro, seminato di fiori, di stelle, di lagrime. Oh! bright king ToMorrow!».
Chissà non possa essere una risposta a quella angosciosa domanda gridata dall’ego scriptor melloniano, narrante vox ora di lei, stavolta di lui: «Hai conosciuto un poeta felice?». Avrebbe potuto dire: un uomo e una donna felici. E qui é il punto. Ci sarebbe da rimproverargli, con l’identico logos che Fëdor mette in bocca alla sua Nasten’ka quando rimbrotta il suo innamorato sognatore: «Voi raccontate in modo meraviglioso, ma non potete raccontare in modo un po’ meno meraviglioso?». Ecco. Aiuterebbe D. a tenere il naso al vento, ma le piante dei piedi là dove camminiamo tutti. Dovrebbe dargli una possibilità per quel dirsi: «Arrivati dove siamo che mi resta da fare, scendere di corsa le scale in pigiama e scrivere sul muro qui di fronte che D. ama P. adeguatamente e vuole invecchiare con lei». Sì, demone o angelo tu sia: sì.