Il libro. “Ucronia” di Carrère: le infinite strade verso quello che avrebbe potuto essere, ma non è stato

22 Set 2024 9:00 - di Lorenzo Cafarchio

«Il passato e il presente appassiscono – io li ho colmati e svuotati, E procedo a riempire la mia prossima piega del futuro». Negli Stati Uniti abissali e solari di Walt Whitman, quelli di Foglie d’erba per intenderci, il tempo dell’ucronia doveva ancora venire. Correva l’anno 1855, il giorno dell’Indipendenza, e serviranno ancora 21 anni al filosofo francese Charles Renouvier per redigere il volume Uchronie. Utopie dans l’Histoire. Da lì scrittori, intellettuali, cineasti, artisti, programmatori di videogiochi, costruttori di mondi e chi più ne ha più ne metta hanno deciso di dare la loro “piega del futuro” intagliando passato e presente. Sminuzzando ieri per ricomporre il domani. Ma cosa sono queste cronache di mondi venturi che potevano esistere, ma che ha scelto altri lidi? «Sostituzione di avvenimenti immaginari a quelli reali di un determinato periodo o fatto storico (per es., la situazione europea se Napoleone avesse vinto a Waterloo)». Treccani docet. E allora Ucronia (160 pp.; 14,00€) proprio come il nuovo testo di Emmanuel Carrère, in uscita in Italia per i tipi di Adelphi il 3 settembre, dove lo scrittore francese dopo aver aperto portali su Eduard Limonov, su Philip K. Dick e descritto, con L’Avversario, l’identità perversa di Jean-Claude Romand traccia infinite strade verso quello che avrebbe potuto essere, ma non è stato.

«In linea di massima, mi sembra strano che si scrivano così poche ucronie, e che queste siano così poco note, altrettanto strano che non si scriva sull’ucronia». Ecco la sentenza di Carrère perché la nostra mente riscrive da decenni le vicende dei romani, dal Medioevo, del Fascismo, del Nazionalsocialismo o del Comunismo. E la riflessione che muove i fili del volume, edito in Francia nel 1986 con il titolo Le Détroit de Behring. Introduction à l’uchronie, arriva proprio dalla speculazione politica generata dalla mente di Marx e introiettata nel corpo di Lenin. Lo scrittore francese narra dell’arresto di Berija – ministro degli affari interni dell’URSS dal 1938 al 1945 e nel 1953 vicepresidente del Consiglio dei Ministri dell’Unione Sovietica – raccontando come nella Grande enciclopedia sovietica i dirigenti del partito ricevevano nuovi fascicoli quando i compagni divenuti nemici del proletariato cadevano in disgrazia. Sorte che toccò anche al georgiano conducendo la memoria a “una circolare” acuminata che “invitava a ritagliare con una lametta la voce su Berija e a rimpiazzarla con un’altra, inclusa nella busta, riguardante lo Stretto di Bering”. Eccola la dittatura del proletariato intrisa di allostoria senza fine pena mai. Dove ogni soggetto, ogni azione, ogni pensiero può diventare ben peggio di una condanna a morte. Può diventare la storia riscritta e tu, proprio tu, un’icona seppellita sotto metri e metri di parole aguzzine.

Ma in Italia invece? L’ucronia dov’è? Esiste un romanzo intitolato Benito I Imperatore, ripubblicato nel 2012 dalle Edizioni di Ar, che racconta di come il Duce, sganciando l’atomica il giorno prima degli statunitensi, vinse la Seconda Guerra Mondiale. Siamo alle porte, inizio anni ‘50, del fantafascismo. La narrazione è frutto della mente di Marco Ramperti, autore eccezionale che passò dal dileggiare Mussolini all’indomani delle elezioni del 1919 a raccontare nella sua autobiografia, intitolata 15 mesi al fresco, della condanna a lunga detenzione amnistiata nel 1946 per aver aderito alla Repubblica Sociale Italiana. Oppure Curt Eric Suckert, facciamola facile Curzio Malaparte, che sulle colonne del settimanale Tempo nel 1949 pubblica a puntate il racconto Storia di domani. Nel testo Malaparte, nonché protagonista e voce narrante, immagina di essere rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli – che sperimentò, realmente, nel 1933 e nel 1943 – all’indomani della sua fuga dalla Francia conquistata dalle truppe sovietiche. Suo compagno di prigionia? Alice De Gasperi il quale, senza mezzi termini, spiega l’issarsi della bandiera rossa sopra le teste degli italiani che «in pochi secondi erano diventati tutti comunisti».

Arrivando ai giorni nostri incontriamo la Trilogia di Occidente – Occidente del 2001, Attacco all’Occidente del 2003 e Nuovo impero d’Occidente del 2006 – di Mario Farneti dove si descrive un’era in cui il Fascismo non approvò le leggi razziali, rifiutando l’alleanza con Adolf Hitler, e i ragazzi di via Panisperna continuarono a lavorare sul territorio italiano senza dover cercare rifugio negli Usa. O ancora il tris fantastorico del frusciantiano Enrico Brizzi che va da L’inattesa piega degli eventi a La nostra guerra per arrivare a Lorenzo Pellegrini e le donne dove, anche qui, la rivisitazione del ventennio nato dal biennio rosso e dalla Prima Guerra Mondiale è l’architrave narrativa. Uscendo dai confini nazionali potremmo perderci in The man in the high castle di Philip K. Dick, divenuto poi serie tv, con il suo mondo governato dal Nazismo, nelle rivisitazioni storiche di Quentin Tarantino da Bastardi senza gloria alla riscrittura del finale della vicenda di Sharon Tate in C’era una volta a… Hollywood fino a giungere al Complotto contro l’America di Philip Roth. Spesso nell’ucronia facciamo i conti in sospeso con un passato, quello fascista, che non abbiamo saputo esorcizzare, analizzare, studiare e interpretare. Dovremmo, forse, cambiare scaffale nella biblioteca scegliendo Zeev Sternhell per poi tornare a destini figli di fantasie incompiute e realizzate solo su carta.

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