L’eterna sfida tra Bene e Male e quell’equivoco attuale in cui cadono i media tra guerre, stragi e gossip
Di fronte a certe drammatiche notizie “di cronaca” siamo costretti inevitabilmente a “fare i conti” con i significati del bene e del male. Non certo per “filosofeggiare”, ma per non sfuggire a domande/responsabilità personali e collettive che ci richiamano ai grandi interrogativi della Vita.
Cosa ci dicono i “protagonisti” di certi recenti episodi di cronaca ? Le loro parole “rivendicano” un vuoto, una “assenza” che nel banalizzare i loro atti omicidi, ci riconsegnano il vuoto dei non-principi, rispetto a cui è difficile dare risposte: “ho ucciso senza un reale motivo”; “ho scelto di uccidere questo giovane perché si presentava con aria felice e io non sopportavo la sua felicità”; “non so spiegare perché sia successo, l’ho vista e l’ho uccisa”; “mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio”.
Nello scorrere del tempo e nel mutare delle condizioni dobbiamo fare i conti con i grandi quesiti che ci vengono consegnati dai primordi dell’Umanità, laddove il Bene rappresenta tutto ciò che ha valore, pregio, dignità, perfino bellezza ed il Male è – all’opposto – odio, morte, indifferentismo. Già per Socrate, il Bene era conoscenza, cultura, sapienza, mentre il Male era ignoranza, assenza di principi etici. Ed oggi ?
Siamo a “La banalità del male” di Hannah Arendt , per la quale la malvagità dell’uomo è considerata come espressione della “spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male”. Il male come “banalità” sta ad indicare l’aspetto di “inconsapevolezza” non del “fatto”, ma del “valore negativo” che i responsabili di mali estremi hanno delle loro azioni. Mostrando in tal modo una condizione di “cecità morale”.
Oggi tutti rischiamo la “cecità morale”, travolti da un’indifferenza fatta sistema, nella quale siamo immersi, incalzati dai tempi stringenti di una comunicazione “mordi e fuggi” (l’apertura del Tg dedicato al gossip; cinque minuti per l’omicidio familiare; sei per i bombardamenti in Medio Oriente; un po’ di cronaca politica; sport e spettacolo) e da una “mancanza di senso” che si è insinuata nelle società occidentali, segnate dal venire meno di regole e principi in grado di dare orientamenti, di “informare” (di dare forma).
Il tema non è solo relativo alla crisi della famiglia, al dialogo tra le generazioni, alla tenuta delle istituzioni scolastiche (irreparabilmente datate – dice il saggio, senza però accennare ad una via d’uscita). La questione è decisamente più complessa. E riguarda la necessità di dare “ragioni” alte all’esistenza dei singoli e delle comunità. Di ritrovare un senso di appartenenza che non è fatto solo di “regole” (di norme) ma è scandito – per dirla con Roger Scruton – “dalla cultura, dalla nazione e da Dio”, dall’arte come “bellezza, forma e redenzione”, dalle “consolidate abitudini di una civiltà bimillenaria”.
Occorre ragionare “sull’uomo come realmente è” e quindi – ci dice ancora Scruton – anche sui limiti etici: “senza limiti morali non ci possono essere cooperazione, devozione famigliare, prospettive a lungo termine, speranze di avere un ordine economico e tanto meno sociale”.
La ricerca del limite è – oggi come ieri – la vera sfida che ci sta davanti: porre confini, sapere distinguere, separare significa – a nostro parere – ritrovare il senso del Bene e del Male, oggi annichilito, messo da parte dall’idea di trasformarci in decisori assoluti sul senso della Vita e della Morte, subendone il peso psicologico.
Di fronte a questa responsabilità, “liquida” com’è la società in cui siamo immersi, a dettare legge (più che le Sacre Tavole) è lo “Stato terapeutico”, attraverso la “medicalizzazione dell’esistenza” cioè la tendenza a percepire lo Stato come un agente per eliminare la “sofferenza”, attraverso l’uso massivo di antidepressivi e antipsicotici, dispensati dal Sistema Sanitario.
E’ il segno di un disagio esistenziale e sociale che è “patologico” della modernità e che rimanda a ciò che scriveva quasi novant’ anni fa Alexis Carrel, Premio Nobel per la fisiologia e la chirurgia fisiologica nel 1912 e insieme scrittore originale, vicino, fino alla morte (1944), alla Rivoluzione Nazionale della Francia di Pétain. In L’uomo questo sconosciuto (1935), Carrel, uno scienziato – si badi bene – pone l’accento sullo sviluppo disorganico della scienza, a cui va addebitata la responsabilità di non avere considerato gli effetti che le proprie scoperte hanno avuto sull’umanità. L’accelerazione dei ritmi dell’esistenza, l’organizzazione industriale del lavoro, la costruzione delle grandi concentrazioni urbane, rendono palesi i limiti di un mondo costruito non proprio a misura di chi lo abita. Era allora, ed è ancora oggi, un mondo apparentemente lanciato verso un progresso inarrestabile, ma ignorante, nella sostanza, dell’autentica essenza dell’uomo, del fatto che non siamo tutti identici e dunque difficilmente possiamo rispondere tutti ai medesimi canoni ideologici. Il risultato – scrive Carrel – è una società che atrofizza l’uomo e lo isola, trasformandolo in “un capo di bestiame”, facendogli perdere le sue qualità di individuo, svuotandolo delle sue attitudini morali, estetiche e religiose, per trattarlo “come una sostanza chimica”.
Sono certamente analisi dure, che possono apparire fuori misura, ma che l’esperienza di questi ultimi mesi conferma nella loro drammatica concretezza, invitando ad una riconsiderazione complessiva.
Da qui, anche da qui, bisogna dunque muoversi per l’auspicato cambio di rotta. Il quale va organicamente ripensato a partire da un’idea integrale dell’uomo e quindi della società, da una riconsiderazione degli attuali standard di vita, dai limiti del nostro sviluppo, dai risultati della disintermediazione sociale, frutto degli eccessi dell’individualismo, da un’etica “sfarinata”.
C’è bisogno di uno scarto culturale, certamente difficile da realizzare. Ma intanto, magari sulla scia di episodi “emblematici”, importante è esserne coscienti, iniziando a coltivare idee, aspettative, simboli in grado di dare risposte mature alle malattie di questo tempo, allo sbiadirsi etico, all’ansietà esistenziale, alla perdita di consapevolezza rispetto alle ragioni autentiche del Bene e del Male.