Da Avetrana a Gomorra: è la fiction, bellezza. E punta a fare soldi tenendoci inchiodati alla tv
La richiesta del sindaco di Avetrana, accolta dal giudice, di sospendere in via cautelativa la fiction sull’omicidio di Sarah Scazzi ha riacceso l’ormai annoso dibattito sull’opportunità o meno di sollevare obiezioni, e perfino chiedere correzioni di tiro, su prodotti televisivi in base all’impatto sociale che possono avere. È chiaro che la prima parola che viene in mente è “censura”, specie se le obiezioni sono preventive, come nel caso in questione. Ma il dibattito è delicatissimo e tutt’altro che banale, e non solo perché porta alla domanda se valga di più la libera espressione creativa o la libera espressione di critica.
Cos’ha chiesto davvero il sindaco di Avetrana rispetto alla fiction
Intanto è bene chiarire che il primo cittadino di Avetrana non ha chiesto di cancellare la fiction, ma di cambiare il titolo “Avetrana – Qui non è Hollywood” per evitare che si crei un legame così diretto e così totalizzante tra il delitto e la comunità cittadina, che di quell’omicidio è stata dolente e attonita testimone.
La comunità avetranese ha voluto affermare la sua distanza morale da quei fatti anche in sede processuale, costituendosi parte civile contro Michele Misseri, lo zio di Sarah condannato per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove, nell’ambito di una vicenda giudiziaria che ha visto la moglie Cosima e la figlia Sabrina condannate per omicidio. Il giudice ha accordato il risarcimento, oltre che per il danno di immagine, anche per la sofferenza collettiva che quel fatto ha provocato alla comunità.
Rispetto alla fiction l’attuale sindaco, Antonio Iazzi, ha chiesto né più né meno di quello che il suo predecessore, Mario De Marco, chiese in sede di processo. Dunque, la domanda è: è supinamente accettabile che gli autori di una fiction, per quelle che appaiono ragioni di marketing, non considerino le sofferenze di un’intera comunità, riconosciute anche in sede legale?
Il caso della serie su Yara e degli audio della mamma
Il caso Avetrana arriva a poche settimane dal caso Yara, un’altra fiction basata sull’omicidio di una ragazzina, con il suo portato di sofferenze individuali e traumi collettivi (ricordiamo che le indagini per risalire al Dna coinvolsero di fatto l’intera popolazione della Val Brembana). Per “Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio” è stata la famiglia della giovanissima vittima a presentare un esposto, al Garante della privacy: nella serie sono stati inseriti messaggi audio che la madre mandò alla figlia nelle drammatiche ore in cui non si sapeva nulla della sua sorte. Quei messaggi, intercettati durante le investigazioni, non sono entrati nei fascicoli processuali, poiché considerati irrilevanti ai fini delle indagini.
La madre di Yara e l’intera famiglia, però, se li sono ritrovati dati in pasto al pubblico di Netflix. I legali dei Gambirasio hanno sottolineato che “c’è stata un’incursione nella vita di questi genitori senza che ci fosse una reale necessità e senza chiedere alcuna autorizzazione”. Dunque, la domanda è: è supinamente accettabile che gli autori di una fiction, presumibilmente per amplificare la portata emotiva di eventi già di per sé sconvolgenti, compiano un’operazione del genere?
“Gomorra” e le preoccupazioni per l’impatto sui costumi
C’è poi tutto il capitolo delle riflessioni ex post, che coinvolge in particolare serie come “Romanzo criminale” e, ancora di più, “Gomorra”, diventata in una parte del dibattito paradigmatica di quello che non andrebbe fatto nella narrazione della criminalità. Non a caso si parla spesso di “modello Gomorra”. E qui la riflessione si fa più complessa, perché gli inviti a proporre modelli diversi, ovvero che non mitizzino mafiosi e criminali, possono effettivamente configurarsi come una forma di ingerenza sulla libertà creativa degli autori. Del resto, la storia del cinema e della letteratura è piena di cattivi carichi di una straordinaria potenza ammaliante, che riflettono poi la reale capacità del male di presentarsi anche sotto le vesti più seduttive.
Epperò, il tema esiste lo stesso, perché tutti sappiamo quanto i comportamenti e il lessico di Ciro, Gennaro e don Salvatore siano entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo, specie giovanile. Non a caso, fra i più severi assertori dei danni provocati da questa “mitizzazione” ci sono persone che hanno fatto della propria vita un vessillo anti-criminalità, da don Maurizio Patriciello a Paolo Siani, fratello di Giancarlo, giornalista ucciso dalla camorra. Si tratta di volontà di censura, di stucchevoli tentativi di svuotare l’oceano con un cucchiaio o di comprensibili richiami alla responsabilità di tutti rispetto a certi temi?
È la fiction, bellezza. E risponde alle regole del mercato
In Italia, poi, la riflessione si fa più acuta in relazione alla circostanza per cui “Gomorra” nasce come libro-denuncia e finisce con la fiction che conosciamo. Cos’è successo nella trasposizione dalla carta al video? Probabilmente quello che è successo con “Avetrana” e “Yara”: le ragioni di mercato hanno preso il sopravvento su tutte le altre. E, dunque, forse il vero punto della questione non è tanto quello della libertà creativa e della censura, ma la riflessione su quanto siamo disposti a cedere al business, relegandoci a quel ruolo di consumatori inconsapevoli che arricchisce materialmente pochi e, sotto vari punti di vista, impoverisce tanti. È uno dei grandi temi della nostra società ed è, in fin dei conti, il tema posto anche dal sindaco di Avetrana, dalla mamma di Yara e da don Patriciello.