“Fight Club”, 25 anni dopo: la ribellione che Hollywood teme e il politicamente corretto censura

28 Ott 2024 13:36 - di Alice Carrazza
FIGHT CLUB

C’è un motivo se, a venticinque anni dalla sua uscita, Fight Club continua a inquietare e affascinare. David Fincher, con uno sguardo sempre lucido e spietato, diede vita a un film che non mai stato solo cinema ma una diagnosi pungente di una società in cui la mascolinità venne spinta ai margini, se non apertamente disprezzata. Non è un caso che Hollywood stessa fatichi a produrre qualcosa di paragonabile oggi. In tempi dove ogni identità viene accolta, l’uomo arrabbiato, disilluso, che rifiuta di aderire a regole che non lo rappresentano, trova sempre meno spazio. Eppure, il messaggio dietro il celebre cult anni 90 risuona come un grido irrinunciabile: siamo arrivati a un punto dove la società non solo soffoca la ribellione, ma addirittura la censura con la scusa del politicamente corretto.

Il triangolo della mascolinità cinematografica: Fincher, Scorsese e Nolan

Hollywood ha tre grandi registi che, più di chiunque altro, hanno saputo esplorare la crisi dell’uomo moderno. Martin Scorsese rappresenta l’alienazione con ombre crude, dando voce a personaggi come il Travis Bickle di Taxi Driver o al detective di Shutter Island, uomini sospesi tra realtà e allucinazione, in costante lotta con i traumi del passato. Christopher Nolan, invece, cala i suoi protagonisti in un abisso interiore, dalle cicatrici emotive del Bruce Wayne nella trilogia del Cavaliere Oscuro al tormentato detective insonne interpretato da Al Pacino in Insomnia. Ma è David Fincher, osservatore freddo e meticoloso dell’ossessione, a dar vita a protagonisti maschili – come Brad Pitt e Kevin Spacey in Seven o Jake Gyllenhaal in Zodiac – talmente immersi nella loro caccia al male da perdere sé stessi, spingendo via chiunque osi avvicinarsi.

Il grido dell’uomo dimenticato: la ribellione come nemico del politically  correct

Con Fight Club, però, Fincher svela l’anatomia di una ricerca incessante di identità come sintomo di un malessere collettivo. Il protagonista senza nome, interpretato da Edward Norton, non trova scampo alla monotonia se non quando incontra Tyler Durden, l’anarchico magnetico che sbeffeggia il consumismo con un ghigno, e incarna il sogno proibito dell’uomo che vuole liberarsi di ogni legame sociale e morale. La trama si snoda tra cazzotti e riflessioni esistenziali, fino a raggiungere il cuore del messaggio di Tyler: «Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinto che un giorno saremmo diventati miliardari, divi del cinema o rock star. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando».

La pellicola, uscita nel 1999 e basata sul romanzo di Chuck Palahniuk, è più di un film: è un fenomeno culturale, una diagnosi collettiva di un disagio inespresso che fermentava già da tempo. La sua estetica brutale e satirica, unita alla critica spietata verso il culto del possesso e la superficialità dell’America di Clinton, aveva già ai tempi fatto indignare la sinistra liberal, troppo chic per la violenza. Roger Ebert lo definì «porno machista», mentre altri critici lo descrissero come «Una rapsodia fascista!».

Fight Club e il volto dell’alienazione: dov’è finita la mascolinità?

Tuttavia, Fincher non consegna al pubblico un manifesto ideologico, ma una spietata riflessione sui limiti del modello capitalistico: non siamo davanti a un’esaltazione della violenza, ma a una raffigurazione di una società che ha reso i suoi figli delle macchine di consumo, privandoli della loro identità e riducendoli a semplici ingranaggi. Con lo sguardo freddo e analitico della sua cinepresa, Fincher offre uno specchio alla Generazione X, presentando i suoi antieroi maschili che inseguono, a ogni costo, un barlume di significato in un mondo che non ha più nulla da offrire se non “macchine veloci e abiti firmati”. La lotta, simbolo centrale del film, diventa un rituale di purificazione, un ritorno agli “istinti primordiali” per sfuggire alla gabbia sociale e psicologica imposta da una società che sembra aver dimenticato il valore dell’uomo e della comunità.

Sfidare il conformismo, sempre

La capacità di Fincher di andare sotto la superficie, di esplorare il subconscio collettivo di una generazione e dare forma visiva al malessere nascosto di milioni di uomini ha permesso a Fight Club di avere un impatto così duraturo nel panorama cinematografico e culturale. Forse oggi, più che mai, abbiamo bisogno di un fight club capace di ricordare, tanto agli uomini quanto alle donne, che essere liberi significa rischiare: di vivere, di fallire, e di non conformarsi.

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *