La serie. La leggenda degli 883: lo Strapaese identitario “con due discoteche e 106 farmacie”
Lo scorso 11 Ottobre è andata in onda su Sky la prima puntata della serie “Hanno ucciso l’uomo ragno – la leggendaria storia degli 883”, biopic del duo pop italiano diventato estremamente popolare nel corso degli anni ’90. La serie diretta da Sydney Sibilia – regista già famoso per le sue storie di anti-eroi che devono lottare contro un sistema che li stritola, così come tratteggiati nel film del 2014 “Smetto quando voglio” – è un romanzo di formazione di due ragazzi che diventano famosi in maniera improvvisa e senza particolari talenti.
Sociologia degli 883
Gli 883 diventarono ben presto un fenomeno cult degli anni ’90, ritrattisti di un’estestica che la critica nostrana non ha mai realmente apprezzato, ritenuti probabilmente naif e poco impegnati. Il substrato della band è un potente mix di testi semplici (ma non sempliciotti), estetica da ragazzi della porta accanto e soprattutto un grande, sapiente, quasi analogico quadro della provincia italiana e dei suoi protagonisti; una provincia tratteggiata con dettagli vividi, uno Strapaese dove ci sono “due discoteche e 106 farmacie” e dove i protagonisti non possono fuggire perché sanno bene che “con un deca non si può andar via”, emblema di una generazione che sta per assaggiare il prezzo dell’inflazione e dell’impoverimento del ceto popolare e medio.
Un altro elemento caratterizzante la band sono le descrizioni dei bar di paese, il romanzo romantico di posti che potremmo definire “iper-luoghi” per citare Marc Augé al contrario: non c’è traccia infatti dei grandi centri commerciali asettici o della movida luminosa, i bar degli 883 sono rifugi, luoghi identitari e incubatori di sogni generazionali.
In questo quadro neo-realista non mancano però esempi di brani onirici come la canzone “nord, sud ovest, est”, nella quale un giovane va alla ricerca della sua identità in un vecchio west popolato da cowboy , indiani e pistole colt.
Se oggi viviamo in un mondo interconnesso – nel quale la frattura centro-periferia si è parzialmente ridotta -, gli anni ‘90 ancora segnavano una differenza tra il mondo della provincia italiana e quello della città, distanza fisica che a volte era veramente ridotta (tra Pavia e Milano corrono soli 30 km), ma che i protagonisti vedevano probabilmente come ingigantita a livello esistenziale.
Da un punto di vista prettamente musicale la band rappresenta l’irrompere della tecnologia nella composizione: non più chitarre da rockstar ma campionature che permettono di sognare i palchi (e forse raggiungerli) anche dalla cameretta di Pavia.
Il rapporto tra politica e musica pop
Gli 883 rappresentano anche quella fetta di Italia, quel bacino di sogni e linguaggi che la politica non ha mai voluto capire e raccontare. La sinistra italiana dagli anni ’70 si è rivolta ad un ceto essenzialmente urbano e non ha mai raccontato la vita di provincia. A questo si aggiunge un rifiuto per la musica pop che è variato dalla violenza franca contro gli autori considerati troppo disimpegnati (celebre il “processo a De Gregori”), fino all’antipatia e all’esclusione degli artisti che trattavano tematiche più intimiste o comunque non schiettamente politiche (come Lucio Battisti, Rino Getano e, appunto, gli 883).
Oggi assistiamo ad un tentativo sempre evidente di mettere in secondo piano le doti artistiche per privilegiare chiunque porti una bandierina coerente con il mainstream; sono incensati e assoldati nella propria “squadra” solo i cantanti che esprimono slogan e stucchevoli ritornelli che ben si abbinano alla vulgata di massima: femminismo un tanto al kilo, diritti non meglio identificati e terzomondismo da fare sussultare il Jovanotti degli anni ’90. Poco importa se la qualità di sintonizzarsi con il Paese reale sia poca o nulla, a nessuno frega più che l’artista esprima qualcosa capace di andare oltre il tempo, l’elemento necessario per giocare al gioco dei buoni e sopravvivere nello showbusinnes è agitare qualche refrain facile per poi essere sedotti abbandonati dallo stesso sistema che li aveva portati in trionfo.
La serie sugli 883 è quindi un racconto generazionale, un affresco su un decennio sottovalutato ma soprattutto è un monito per una riflessione sul rapporto tra il pop e la Nazione. Attraverso la violenta scure del tempo sopravvive solo chi è autenticamente sé stesso, l’arte non è di parte nella misura in cui è universale: essa si esprime in linguaggi autentici che toccano le corde dell’anima, la musica sopravvive e svolge la sua missione solo se si sintonizza con lo Zeitgeist del tempo.