L’agguato a Sergio Ramelli: attimi che sembrano eterni. E quelle chiavi inglesi nelle mani degli assassini
Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro di Nicola Rao, “Il tempo delle chiavi. L’omicidio Ramelli e la stagione dell’intolleranza” (Piemme editore)
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Sono le 12.25. Sergio attraversa tutto il centro in motorino e torna verso casa, in zona Città Studi.
Lui abita in un palazzo in via Amadeo, ma in genere parcheggia sempre il motorino nella strada che fa angolo, in via Paladini, all’altezza del numero 15.
Ore 12.55. Sergio è arrivato, frena, spegne il Ciao blu e comincia a parcheggiarlo al solito posto. In quel momento vede un giovane, anzi due giovani, con impermeabili blu scuro, che gli corrono incontro.
È questione di attimi. Le chiavi inglesi in mano, le urla, il tentativo di Sergio di ripararsi il capo.
Poi il primo colpo in testa e poi un secondo. Lui cerca di fuggire, ma inciampa sul suo motorino e cade a terra. Uno degli assalitori gli crolla addosso a sua volta.
Mentre è a terra, ora sono in due a picchiarlo, e sta arrivando un terzo boia sempre con chiave inglese in mano. L’aggressione dura pochi secondi che sembrano un’eternità.
Ma siamo in pieno giorno. La signora Lidia Ricci e sua figlia Mirella Tavecchia stanno tornando a casa dopo aver fatto la spesa e assistono all’aggressione. Cominciano a urlare.
Le sente gridare Luigi Vaccani, titolare del negozio di ferramenta proprio all’angolo tra via Amadeo e via Paladini. Si precipita fuori dal negozio e vede che Sergio, a terra, è pestato da tre o quattro giovani.
In quel momento passa davanti a via Paladini anche Ernesto Demartini. La signora Ricci lo incrocia e gli indica uno degli aggressori che a passo veloce si allontana verso via Arnò, seguito da una decina di persone. L’aggressore ha ancora in mano la chiave inglese con cui ha colpito Sergio. Demartini non ci pensa due volte: sale sulla sua auto e comincia a inseguirli. Li raggiunge tra via Strambio e via Venezian. Ma un senso unico lo costringe a fermarsi. E a perderli di vista. Qualcuno chiama i vigili urbani. Qualcun altro un’ambulanza. Che arriva pochi minuti dopo. Alle 13.15 anche Sergio, come tanti prima di lui, viene «ospitato» dal reparto neurologico Beretta del Policlinico. La diagnosi immediata è la seguente: «Trauma cranico. Ferite lacero-contuse al cuoio capelluto con fuoriuscita di sostanza cerebrale e stato comatoso». La prognosi è riservata. Torniamo all’interrogatorio di Marco Costa, capo della squadra dei suoi aggressori, 10 anni dopo, durante il processo di primo grado:
«Ramelli ci vede, mi vede, capisce, si protegge la testa con le mani. Ha il viso scoperto e posso colpirlo al viso. Ma temo di sfregiarlo, di spezzargli i denti. Gli tiro giù le mani e lo colpisco al capo con la chiave inglese. Lui non è stordito, si mette a correre. Si trova il motorino tra i piedi e inciampa. Io cado con lui. Lo colpisco un’altra volta. Non so dove, al corpo, alle gambe. Non so. Una signora urla: “Basta, lasciatelo stare. Così lo ammazzate”. Scappo e dovevo essere l’ultimo a scappare».
Nello stesso processo, un altro dei suoi aggressori, Giuseppe Ferrari Bravo, ricorda come segue.
«Aspettammo dieci minuti e mi parve un’esistenza. Guardavo una vetrina ma non dicevo nulla. Ricordo il ragazzo che arriva e parcheggia. Marco mi dice: “Eccolo”, oppure mi dà solo una gomitata, ora non ricordo bene. Ma ricordo le grida. Ricordo, davanti a me, un uomo sbilanciato. Ramelli ci vede, capisce, si protegge la testa con le mani. Ha il viso scoperto e posso colpirlo al viso. Colpisco una volta, forse due. Ricordo una donna a un balcone che grida: “Baaasta!”. Durò tutto pochissimo. Avevo la chiave inglese in mano e la nascosi sotto il cappotto. Fu così breve che ebbi la sensazione di non aver portato a termine il mio compito. Non mi resi conto di ciò che era accaduto».
In federazione lo vengono a sapere presto. Sentiamo Ignazio La Russa:
«La notizia ci arrivò poco dopo in via Mancini. Si capì subito che era una cosa grave. Molti nostri giovani, soprattutto ragazze, ricordo Rita Perci e le altre, andarono quasi tutti i giorni in ospedale per capire come stesse. E poi mi riferivano. Io non sono riuscito ad andare in ospedale a trovarlo. Né lui né i tanti, troppi ragazzi a cui è stato fracassato il cranio a colpi di chiave inglese. Sergio lo avevo visto l’ultima volta pochi giorni prima che lo aggredissero. Credo non più di quattro giorni prima. Lo vidi al cinema e lui venne nell’intervallo a salutarmi. Io qualche fila avanti, lui qualche fila dietro. In quel periodo, quando andavo al cinema con la mia fidanzata, per motivi di sicurezza, entravo quando si erano già spente le luci della sala e stava per cominciare la proiezione. E ce ne andavamo quando le luci erano ancora spente, appena finito il film. Così, quando tra il primo e il secondo tempo si accendevano le luci, eravamo sempre molto circospetti e prudenti. Lui invece mi chiamò a distanza tranquillamente e venne a salutarmi, tanto che ricordo di aver temuto che qualche compagno in sala se ne accorgesse e mi riconoscesse».