Le grandi città alla ricerca di un centro di gravità permanente, tra ambizioni da Smart Cities e declino extra-urbano
“La città non dice il suo passato,
lo contiene come le linee d’una mano,
scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre,
negli scorrimano delle scale,
nelle antenne dei parafulmini,
nelle aste delle bandiere,
ogni segmento rigato a sua volta di graffi,
seghettature, intagli, svirgole.”
Italo Calvino “Le città invisibili”
La Smart City come risposta all’urbanizzazione globale
L’idea della Smart City nasce diversi anni fa come risposta – globale, politica, tecnologica e industriale – alla frenetica tendenza all’urbanizzazione di massa e alla rapidissima digitalizzazione del mondo. Si prevede infatti che entro il 2030 quasi un quarto della popolazione mondiale vivrà nelle 600 maggiori città del mondo, che nel 2050 la terra ospiterà 9 miliardi di persone, e che ben il 70% degli abitanti del mondo risiederà nelle città. Oltre che dalla crescita demografica globale e dall’imponente processo di urbanizzazione, l’epoca contemporanea è appunto caratterizzata dalla digitalizzazione delle attività e dalla corsa all’innovazione: basti pensare che nel 2024 si stima che ci siano oltre 40 miliardi di dispositivi connessi a Internet a livello globale. Una crescita digitale trainata principalmente dall’espansione dell’Internet of Things (IoT), che coinvolge dispositivi come elettrodomestici intelligenti, sistemi industriali automatizzati, veicoli connessi e tecnologie per le città intelligenti.
Le città intelligenti: strumento di governance e sviluppo sostenibile
L’idea della “Smart City” è dunque da diverso tempo utilizzata dalle istituzioni e dalle grandi imprese multinazionali come strumento per governare il cambiamento. E, ancor di più oggi nel solco della narrativa del Green Deal e delle grandi transizioni, è sinonimo di modernità, sviluppo e sostenibilità: la città, la grande città, come luogo centrale di concentrazione delle attività e della conoscenza, fondato su un forte investimento nelle tecnologie informatiche, nelle reti di comunicazione e nelle smart grid, nell’energia rinnovabile e nella nuova edilizia sostenibile; la città, la grande città, come luogo centrale ove si creano le condizioni di governo, infrastrutturali e tecnologiche, per produrre l’innovazione e per risolvere i problemi legati allo sviluppo economico e all’ambiente, attraverso il coinvolgimento di istituzioni, cittadini, imprese, associazioni.
La “Terra Promessa” per le multinazionali
L’idea della Smart City rappresenta il sogno di tutte le multinazionali, ovvero il modello di sviluppo della grande città universale, una città fatta da infrastrutture e apparati standard, e disponibili a tutte le latitudini; con modelli di produzione e di consumo globali e omogenei, e (ovviamente non può mancare) sostenibili. Una “Terra Promessa” costruita sulla rivoluzione digitale e energetica, trainata dalle multinazionali Hi-tech che assumono il ruolo di maggior rilievo e impulso per plasmare la nuova modernità ideale. Per la Smart City diviene determinante, al fine di mantenere uno standard di modernità e non entrare nella periferia delle opportunità, investire e attrarre investimenti privati nelle nuove tecnologie della comunicazione e dell’energia, nuove tecnologie detenute da pochi grandi produttori mondiali.
La realtà italiana: piccoli comuni e radici culturali
Tuttavia, nonostante si stia assistendo un po’ ovunque nel mondo allo sviluppo delle cosiddette megalopoli, e nonostante la predominante narrazione sulle bellezze della Smart City, il caso italiano, anche secondo le ultime recenti rilevazioni dell’Istat, è certamente diverso.
In Italia, circa il 70% dei comuni ha meno di 5.000 abitanti, e questi comuni rappresentano una parte significativa del tessuto urbano e delle radici culturali del nostro Paese. Nel 2019, in Italia vivono circa 60 milioni di persone, e il 56% della popolazione in comuni con meno di 10.000 abitanti, rispetto al 29% di coloro che vivono nelle città di medie dimensioni, tra 10.000 e 250.000. Solo il 15% vive nelle città con più di 250.000 abitanti. La maggior parte della popolazione italiana vive dunque in comuni di piccole dimensioni (il 56%) e di medie dimensioni (il 29%).
Il declino delle aree interne
Si assiste inoltre ormai da anni al declino delle aree interne: secondo i dati della Strategia Nazionale delle Aree Interne, rientrano in questa definizione – ovvero di aree caratterizzate dalla riduzione significativa della forza lavoro, dalla diminuzione del reddito pro capite e dal declino demografico – il 48,5% dei comuni del nostro Paese, dove vive il 32,7% della popolazione italiana.
Il patrimonio storico e produttivo tutto italiano
Numeri che cambiano e salgono guardando al Mezzogiorno, in cui il 67,4% dei comuni rientra nella definizione di Aree Interne. È però fondamentale sottolineare che proprio nell’Italia dei piccoli comuni e anche delle aree interne c’è ancora un enorme patrimonio storico-culturale, naturalistico, ed economico. Il 92% delle produzioni tipiche nazionali agroalimentari nasce nei piccoli comuni: secondo il recente studio Coldiretti/Symbola “Piccoli comuni e tipicità”, ben 270 prodotti a denominazione di origine, Dop o Ipg, su 293, e tra questi la produzione di tutti i 52 formaggi a denominazione, del 97% dei 46 olii extravergini di oliva, del 90% dei 41 salumi e dei prodotti a base di carne, dell’89% dei 111 ortofrutticoli e cereali e dell’85% dei 13 prodotti della panetteria e della pasticceria, del 79% dei vini a denominazione di origine. Produzioni che coinvolgono circa 279mila aziende agricole e agroalimentari.
Il nostro centro di gravità permanente. L’Italia degli ottomila campanili e delle cento provincie.
In questo scenario di complessità tecnologica per la modernizzazione ecologica e digitale, fondato sull’idea della Smart City, sembra possibile il rischio della deriva periferica o al massimo del destino subalterno del modello italiano, caratterizzato da migliaia di piccoli comuni e da milioni di piccole e piccolissime imprese; e che però proprio dalle tante differenze locali e artigianali basa la capacità competitiva internazionale del Made in Italy. La scarsa capacità nella produzione locale di tecnologie per la Smart City, e quindi la dipendenza tecnologica, e la scarsa capacità di spesa da parte degli enti locali (in parte per i noti vincoli di bilancio, nonostante la consistente presenza di fondi) generano il rischio di far crescere il gap tra “città moderne“, in grado di attrarre risorse umane e finanziarie, e città arretrate, dalle quali emigrare o nelle quali sviluppare al massimo un’offerta agro-turistica. È proprio per questi motivi e soprattutto per rafforzare le capacità competitive e il benessere dei nostri territori che, a nostro parere, si può pensare non certo a inutili e passatiste strategie difensive del bel tempo antico ma a strategie di ampliamento del perimetro del concetto di Smart City: dalla Città alla Provincia.
La Smart Local Area: dalle città alle province
Pensare alla Smart City in Italia significa certamente pensare alla modernizzazione delle grandi città ma anche, e con forza, ai tanti distretti e aree culturali e produttive diffuse nel nostro Paese degli 8000 campanili e delle cento provincie. Significa ricordare, e vale la pena ripeterlo, che il 70% dei comuni italiani ha meno di 5.000 abitanti, e che questi comuni rappresentano una parte significativa del tessuto urbano italiano; e che il 56% della popolazione vive in comuni con meno di 10.000 abitanti. Significa dunque pensare che spesso l’unione fa la forza, e quindi allargare il concetto di smart dalla city alla provincia, che si può definire come Smart Local Area. Significa pensare a polis connesse con altre polis, in una rete culturale ed economica basata sulle tradizionali specializzazioni produttive dei nostri territori, sui tanti saperi identitari e non replicabili, scolpiti nelle pietre dei nostri borghi e magistralmente descritti nella frase di Italo Calvino, che ha ispirato questo articolo.
Smart Local Area: un’evoluzione competitiva per le province italiane
In questo senso si può assimilare il concetto di Smart Local Area a quello di milieu innovateur, definito: “come un insieme di relazioni che portano a unità un sistema locale di produzione, un insieme di attori e di rappresentazioni e una cultura urbana e che genera un processo dinamico localizzato di apprendimento collettivo… Lo spazio, inteso come mera distanza geografica, è sostituito dal territorio (o spazio relazionale), definito come il contesto in cui operano comuni modelli cognitivi e in cui la conoscenza tacita viene creata e trasmessa; il tempo, inteso come mera sequenza di intervalli sul quale misurare le variazioni quantitative di variabili continue, è sostituito dal ritmo dei processi di apprendimento e di innovazione/creazione”(Camagni, 1995).
Se la teoria della Smart City poggia su tecnologie “universali” e omogenee destinate alla modernizzazione della Città, l’evoluzione in Smart Local Area per perimetri provinciali può determinare, proprio come già avvenuto per i distretti industriali italiani, il potenziamento delle identità e delle capacità locali. Le funzioni di apprendimento competitivo centrali nella teoria del milieu innovateur: “possono essere sintetizzate in un termine generale: la creazione di identità locale… Senso di appartenenza e orgoglio locale sono infatti elementi che rafforzano le propensioni cooperative e sinergetiche, sia creando “reti di protezione” alle singole imprese nei momenti di difficoltà, sia incrementando il potenziale di creatività locale”(Camagni, 2000).
Una base tecnologica universale per rafforzare la specificità locale
La Smart Local Area, con dotazioni tecnologiche “universali” può essere dunque la base per rendere più competitiva la specificità locale, rafforzando i naturali milieux innovatori, integrandoli, con reti veloci e intelligenti, con milieux di altre Smart City. L’evoluzione della teoria della Smart City (diretta a un unico cento di riferimento) verso quella della Smart Local Area (per una rete locale di comuni, uniti da valori culturali e produttivi) ci sembra in linea con la storica vocazione nazionale degli 8000 comuni e della straordinaria esperienza dei distretti industriali. E dunque, può concretamente contribuire al riposizionamento competitivo delle tante aree produttive italiane che ruotano intorno ai tantissimi piccoli comuni e alle tantissime piccole imprese.
La Smart Local Area e il futuro delle aree produttive italiane
Le Smart Local Area, fondate sulla sintesi tra i modelli tecnologici globali e le tradizionali capacità produttive locali, proprio grazie alle innovazioni digitali ed ecologiche possono rafforzare il potenziale di crescita economica dei territori nel processo di internazionalizzazione, e facilitare la diffusione globale delle specifiche identità locali.
Nel contesto italiano costituito da tante piccole imprese e da tanti piccoli comuni, l’economia che punta sulle nuove tecnologie e quindi sulla modernizzazione digitale e ecologica della struttura produttiva deve essere relazionale, seguendo la tradizione italiana delle reti di piccole imprese e dei distretti industriali, intorno a contesti urbani piccoli ma capaci di coniugare gli storici vantaggi competitivi con il processo di assestamento tecnologico. Si pensa, per terminare queste riflessioni, la Smart Local Area di ambito provinciale e a trazione comunitaria, dotate delle necessarie infrastrutture stradali, digitali ed energetiche e fondate soprattutto sul tradizionale capitale relazionale, fatto di attitudine alla cooperazione, fiducia, coesione e senso di appartenenza.
Una visione di lungo periodo per il coordinamento nazionale
Ma come indicato dal caso ben noto dei “distretti industriali” e dalla letteratura internazionale sui “sistemi nazionali e regionali d’innovazione”, l’interazione tra i diversi attori e la combinazione originale di conoscenze complementari non sempre avvengono spontaneamente, e richiedono una chiara visione d’insieme e di lungo periodo, ed una forma esplicita di coordinamento politico nazionale.
*Docente di Economia dell’ambiente e del Territorio dell’Università Guglielmo Marconi