L’intervista. Polito: “Politici, tutti a lezione da De Gasperi. Il premierato? Avrebbe detto sì…”
Antonio Polito, perché ha scelto di scrivere un libro (“Il Costruttore. Le cinque lezioni di De Gasperi per i politici di oggi”, Mondadori) sulla figura di Alcide De Gasperi?
«Ho scelto De Gasperi perché la sua storia è di estrema attualità, approfittando dei 70 anni dalla sua scomparsa, mi è parso utile riproporre la sua esperienza politica poiché riguarda una serie di temi tuttora centrali nel dibattito politico italiano ed europeo, sia per le cose che ha fatto, determinando il perimetro entro cui ancora oggi si svolge la battaglia politica – ad esempio l’adesione al Patto Atlantico o la fondazione del primo nucleo dell’Europa unita – sia anche per le cose che non è riuscito a fare sulle quali ancora oggi discutiamo. La difesa comune europea e la riforma che dia più potere all’esecutivo sono tipici esempi».
Se fosse stato un giovane cronista ai tempi di De Gasperi, cosa avrebbe voluto chiedergli?
«Se per caso nella sua vicenda di governo non si sia sentito un po’ solo, isolato, contrastato e frenato dal suo stesso partito, la Democrazia Cristiana».
De Gasperi era un uomo solo?
«Così s’intitola il bellissimo libro biografico della figlia, Maria Romana, amareggiata soprattutto per il modo in cui De Gasperi fu messo da parte dopo la sconfitta per un 0,2% di voti sulla cosiddetta “Legge truffa” nel 1953. De Gasperi aveva ottenuto una riforma elettorale in senso maggioritario che avrebbe dato un’ampia maggioranza del 65% dei seggi alla coalizione che avesse superato il 50% dei voti popolari. Allora, poteva sembrare una truffa, ma alla luce del Porcellum e del Rosatellum, entrambi bocciati dalla Corte Costituzionale perché non fissavano alcuna soglia per il premio di maggioranza, sembrerebbe oggi una legge molto equa. Purtroppo, quella riforma non scattò perché alle elezioni la coalizione centrista da lui guidata ottenne solo il 49,8 %. Questo fu l’inizio della fine del degasperismo perché la Dc lo mise frettolosamente da parte: ed è a questo periodo che si rivolge la figlia quando dice che De Gasperi era un uomo solo».
Lei lo definisce un “premier forte”. Cosa lo rendeva tale?
«E’ stato un premier forte perché ha vinto a valanga le elezioni, le uniche della storia della Repubblica, in cui un solo partito ottenne la maggioranza assoluta sia alla Camera che al Parlamento, perché il 18 aprile del 1948 la Dc stravinse le elezioni (De Gasperi fece una coalizione di governo con socialdemocratici, repubblicani e liberali). Questo gli diede una grande forza d’azione, perché la prima cosa che conta per esser forti è avere un forte consenso popolare. Nonostante ciò, fu una stagione di grandi riforme sociali, come lo stralcio della riforma fondiaria con cui distribuì un milione di ettari di terra ai contadini espropriandoli ai proprietari assenteisti, o il Piano Casa con centinaia di migliaia di alloggi popolari, o l’Eni affidata ad Enrico Mattei, con la nazionalizzazione dello sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio, o la Cassa del Mezzogiorno, mille miliardi di lire in 10 anni per il Sud Italia. Queste riforme provocarono reazioni dei gruppi di interesse costituiti potenti e fu contrastato. Pensi che esisteva un gruppo di parlamentari democristiani chiamati i “vespisti”, perché riuniti per la prima volta nel Club della Vespa a Roma, i quali non avevano nessuna affiliazione politica particolare, che di volta in volta si organizzavano per condizionare le scelte del governo in difesa di questo o quell’interesse».
Dunque, i gruppi di pressione ci sono sempre stati…
«In Italia, questi gruppi hanno un potere maggiore perché nella nostra Costituzione i poteri dell’esecutivo sono molto più ridotti che nel resto di Europa, quindi, sono più capaci di condizionare in vari modi l’azione di governo. La ragione per cui la Costituzione italiana disegnò un governo sostanzialmente debole sta nel fatto che comunisti e democristiani, mentre scrivevano la Costituzione, non sapevano chi avrebbe vinto le prossime elezioni, quelle del ’48. Entrambi temevano che se avessero dato troppo potere al governo, in caso di sconfitta, l’avrebbero pagato molto dura. Quindi, si accordarono tacitamente per un governo sostanzialmente debole. Dopo De Gasperi, infatti, nacque la Repubblica dei partiti, in cui i partiti comandano più delle istituzioni».
Lei ha parlato di tante riforme che hanno resistito all’usura del tempo, ne scelga una che non abbia ricevuto picconate politiche dopo De Gasperi.
«Senza dubbio la scelta di De Gasperi, il quale è da considerare il vero padre della Repubblica, se si considera che De Gasperi è stato l’ultimo Presidente del Consiglio del Regno d’Italia e il primo Presidente del Consiglio della Repubblica, di aderire al Patto Atlantico, avvenuta dopo la fine della guerra in un contesto internazionale di assoluto isolamento dell’Italia, considerato un Paese sconfitto perché aveva perso la guerra voluta dal fascismo. De Gasperi è stato un grande antifascista: per questo fu arrestato, condannato e detenuto. La scelta di aderire al Patto Atlantico fu straordinaria perché, innanzitutto definì il campo in cui la nuova Repubblica si sarebbe sviluppata, e non era affatto scontato, perché sia nella Dc sia nel mondo cattolico sia nella stessa Chiesa c’erano diversi orientamenti contrari all’adesione al Patto. C’erano, poi, i comunisti contrari perché a quel tempo tifavano per Stalin. Nel mondo cattolico prevaleva quell’idea di Europa terza forza di un cattolicesimo diverso dal comunismo sovietico ma anche dal liberalismo anglosassone. De Gasperi dovette sudare sette camicie per ottenere quel risultato e fu una scelta felice perché poi alla fine gli Stati Uniti si rivelarono l’unico nostro amico con il Piano Marshall, e l’unica nostra possibile protezione nei confronti del nemico sovietico, cioè dal rischio rappresentato dall’Armata Rossa. Faccio notare che, non molti anni dopo, 29 anni, Enrico Berlinguer, segretario del Pci, ebbe a dire nel ’76 che anche lui riteneva più sicuro per la sua azione politica, stare da questa parte, cioè non stare dalla parte dell’Unione sovietica. Dunque, scelta difficile, ma assolutamente lungimirante, anche ai fini economici perché furono poi gli Stati Uniti ad aiutare non solo Inghilterra e Francia, che erano state alleate durante la guerra, ma anche per Italia e Germania, i paesi sconfitti, ad aiutare nella ricostruzione queste nazioni col Piano Marshall».
De Gasperi era un fervente cattolico e governava in un contesto storico in cui fede e politica erano simbiotiche, ed il cattolicesimo orientavano le scelte politiche e i costumi degli italiani. Nonostante ciò De Gasperi mantenne l’Italia in una condizione di laicità, scontrandosi amaramente con Papa Pio XII. Quale era la dimensione politico-spirituale di De Gasperi?
«La sua personalità era quella, oserei dire, più quella di un cattolico, di un profondo credente di un cristiano delle origini. In lui c’era una forte purezza della fede. Lui viveva la fede con intensità personale, è morto invocando Gesù. Sono bellissimi gli scambi epistolari avuti con la figlia suora in cui interpretavano le vicende umane e politiche alla luce della figura di Cristo. Questa fede orientava anche la sua sobrietà, il suo rigore e la sua onestà che predicava anche nel suo partito. Però, nella sua azione da politico, era orientato non tanto a servire l’interesse della Chiesa ma a servire il disegno della Provvidenza, che sono due cose diverse. Quando avvertiva che la volontà della Chiesa non corrispondeva al disegno della Provvidenza, almeno secondo la sua idea, diceva la sua. Per esempio, durante il fascismo, quando era in esilio nella Biblioteca Vaticana, l’unico luogo in cui potesse lavorare, con un salario molto modesto, nelle sue lettere dimostra un grande fastidio per certi cedimenti eccessivi che la Chiesa stava facendo al fascismo, soprattutto dopo i Patti Lateranensi, in cui parte della gerarchia ecclesiastica aveva aderito al fascismo. In una lettera dice: “Questi cardinali dovrebbero sì insegnare ai giovani a genuflettersi, ma dovrebbero insegnar loro anche a saper stare a schiena dritta”. Anche nel ’52, quando era Presidente del Consiglio, le riforme sociali di cui abbiamo detto provocarono un grande contraccolpo a destra e alle elezioni amministrative la Dc perse le città di Bari e di Napoli. Pio XII aveva paura che succedesse anche a Roma e quindi pretendeva da De Gasperi che la Dc non si presentasse alle elezioni amministrative ma confluisse in una grande lista civica cattolica con missini e monarchici. De Gasperi era contrario perché non voleva allearsi coi missini a pochi anni dalla fine del fascismo ma anche perché pensava che sarebbe stato un errore anche per la Chiesa presentarsi con una lista clericale contro i laici. Però, dichiarò che avrebbe obbedito al Papa o semplicemente si sarebbe dimesso da premier perché questa operazione la facesse qualcun altro. L’operazione non si fece, la Dc vinse le elezioni, 6 mesi dopo De Gasperi chiese un’udienza privata a Pio XII perché la figlia prendeva i voti, e il Pontefice gliela rifiutò. Lui se la prese e dichiarò in una lettera che da Presidente del Consiglio avrebbe protestato contro la Santa sede perché il Pontefice non può rifiutarsi di ricevere il Presidente del Consiglio della Repubblica italiana. Questo a proposito di schiena dritta e laicità».
Nella sua descrizione di De Gasperi, lei ha trovato un parallelismo con statisti del panorama internazionale?
«Il pensiero immediato va ad Adenauer, il grande democristiano, ricostruttore della Germania post-nazista, e a Schumann, ministro degli Esteri francese, anch’egli cattolico, perché questi tre furono il nucleo di quella che sarebbe stata la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, primo embrione dell’Europa. De Gasperi sosteneva la fondazione di una forza di difesa comune europea. Infatti, scriveva, che solo attraverso una difesa comune sarebbe stato possibile avere un’Europa politica. Per me De Gasperi era un fondatore dell’Italia al pari ad un Gaulle in Francia e un Adenenuer in Germania. Spiace che non sia ricordato come avviene per costoro».
Lei lo ha definito “Il Costruttore”. Nel contesto politico attuale, il Ri-Costruttore chi potrebbe essere?
«Quando ho scritto questo libro non ho rivolto il pensiero al premier di turno, il discorso vale per chiunque voglia governare l’Italia, soprattutto per colei che ha un mandato elettorale forte, rispetto agli ultimi dieci anni. Draghi, per esempio, pur avendo qualità paragonabili ai grandi del passato, non aveva i mezzi politici per attuare un programma. Giorgia Meloni ha i mezzi politici a disposizione. Le cinque lezioni sono rivolte alla Meloni come a qualsiasi altro e cioè: ricordati che la politica estera è la chiave della politica interna, devi stare nel sistema di alleanze e nella tradizione storica dell’Italia repubblicana, perché appena esci il Paese s’indebolisce; seguire una linea di rigore economico per fare le risorse sociali; non devi dimenticare che senza il Mezzogiorno l’Italia è zoppa e quindi devi investire nel Mezzogiorno non con la spesa corrente ma con gli investimenti infrastrutturali e pubblici; il vero democratico è antifascista e anticomunista allo stesso tempo, cioè si distanzia da tutte le idee anti-democratiche che nella storia del nostro paese hanno avuto un peso; un leader è forte davvero quando sono forti le istituzioni non già i partiti, perché un leader deve essere anche libero dal condizionamento dei partiti, persino il suo. I partiti devono organizzare il consenso e selezionare la classe dirigente, ma poi, il Parlamento delibera ed il Governo esegue. Con Giorgia Meloni questo è più facile perché l’identificazione tra premier e leader di partito è così forte che il partito non può rappresentare una remora per la sua azione, però agisce in un governo di coalizione e quindi deve essere rappresentata dagli due partiti, Lega e Forza Italia».
Fascismo e antifascismo oggi sono tornati di moda. C’è una sinistra che trova il suo collante in un “pericolo nero” più che nel rafforzamento del campo largo. Non crede che la sinistra stia urlando ai fantasmi?
«Certamente non corriamo il rischio di una deriva fascista, ciò non vuol dire la libertà non debba essere sempre vigilata e protetta con attenzione, perché in Europa ci sono molti movimenti politici che ritengano sia più efficiente ridurre la libertà per poter governare meglio. Ma questo sia a destra che a sinistra. Io credo che andrebbe adottata anche da parte di chi viene da una tradizione come quella di Giorgia Meloni una definizione che Benedetto Croce usava per il cristianesimo: non si può nell’Italia di oggi non essere antifascisti. Questo non vuol dire aderire alla polemica di chi a sinistra sta tentando di rispolverare l’antifascismo per contrastare più banalmente i partiti al governo oggi, come già accaduto coi primi governi Berlusconi con Fini e la destra di allora. Anche Fini lo disse: “Non si può non essere antifascisti”, sfuggendo allo strumentalismo di queste posizioni a sinistra. Oggi abbiamo una destra tradizionalista ma sicuramente non neofascista e soprattutto è una destra moderna e con tanti collegamenti internazionali. Io penso sia una destra molto più democratica di quella che si affermerebbe negli Stati Uniti se vincesse Trump».
Secondo lei, Alcide De Gasperi avrebbe sostenuto le riforme del governo Meloni?
«Credo che avrebbe sostenuto il premierato, perché lui nel del ’53 non ebbe la forza di toccare la Costituzione ma era chiaro a lui e a quelli del suo tempo che già negli anni ’50 che ne era venuto fuori dalla Carta costituzionale un equilibrio dei poteri troppo sbilanciato a svantaggio del governo. Nel discorso del ’52, De Gasperi avvertì che nel sistema parlamentare italiano l’unione per la distruzione è sempre superiore all’unione per costruzione. Lui affrontò il problema attraverso una legge elettorale che desse un potere tale all’esecutivo ma non ci riuscì. Un’idea di governo di Gabinetto di stampo anglosassone per intenderci. Per quanto riguarda l’autonomia differenziata, la questione è più complessa perché De Gasperi era sicuramente un autonomista come nella tradizione del pensiero cattolico e risorgimentale, ma credo che lui sarebbe stato preoccupato degli effetti che questa riforma può avere sul Mezzogiorno. De Gasperi, il presidente del Consiglio più settentrionale della storia d’Italia, essendo austriaco, ha fatto poi il più grande intervento keynesiano per rimettere il Mezzogiorno in corsa fondando la Cassa del Mezzogiorno, con l’idea che un Mezzogiorno sviluppato potesse assorbire la produzione delle industrie del Nord. Cosa che avvenne col boom economico. Credo che sarebbe stato più meridionalista di Calderoli sicuramente».