“Perché l’Italia è di destra”: Bocchino reinterpreta la droite e smonta i luoghi comuni della sinistra

3 Ott 2024 8:55 - di Carmelo Briguglio

Italo Bocchino firma un libro (Perché l’Italia è di destra, Solferino) dal titolo immediato che va al cuore delle questioni a cui si sforza di dare risposte, in verità tutte articolate. Ma, soprattutto, già la cover riassume la caduta di un tabù, di una indicibile cosa che l’autore invece proclama: la nostra è una terra di destra. E’ un dato culturale, sociale, elettorale; anche antropologico. Una verità che è stata per tanti anni velata, sussurrata, allusa, sottintesa, mai enunciata. Bocchino ha il coraggio di farlo, recidendo uno dei fili del mainstream che passa per il tacere una realtà cosi down rispetto alle cerchie progressiste top; non si limita a a registrare l’elemento storico-politico che lo consacra: l’ascesa di Giorgia Meloni, come capo del governo. La spiega con una profondità “storica”, con una visione inedita delle fasi politiche che vanno dalle radici della Repubblica a oggi.

Una reinterpretazione “storica” della destra italiana

Il libro reinterpreta la stessa categoria della destra – una rupture anche rispetto alla rive droite – facendo una sorta di operazione-verità che passa per la distinzione tra una grande Destra e una piccola: la prima è la Democrazia cristiana, l’altra, il Msi in fasce, nato dalle ceneri tragiche del fascismo e della guerra civile. La destra odierna ha radici più evidenti nella seconda, ma ha un heritage in ombra, tuttavia più saliente, più “vero”, nella prima. Nel dopoguerra, la destra maggiore è la Dc “cattolica, atlantista e anticomunista”, quella cioè che l’autore definisce “la destra popolare di massa”, la quale vinse quello “scontro di civiltà” del 18 aprile 1948 (il Msi raggranellò un minuscolo 2%, anche se destinato a crescere). Secondo l’autore i lunghissimi “quarantasei anni di governo, in varie salse di coalizione, hanno poi annacquato le radici di destra di questo trionfo”. Quella del direttore editoriale del Secolo d’Italia ad alcuni sembrerà l’ “invenzione di una tradizione” per dirla con Hobsbawm, lo storico marxista del “secolo breve”; o anche un’operazione “coperta” di egemonia che dà alla destra italiana un’ascendenza più presentabile e più larga di quella della antica fiamma, ma il puzzle composto dalle pagine del volume é attraente e, soprattutto, regge. Senza, non si comprenderebbe perché siamo un popolo “di destra”.

Meloni e l’eredità della Dc che guarda al futuro

Attenzione: l’analisi, puntuta ma precisa, non è tanto una riscrittura del passato, segue piuttosto la traccia di un’ambizione futura: stabilizzare e fare crescere ancora l’area politico-elettorale meloniana, sul 30-35 per cento, più o meno l’insediamento della mitica Balena Bianca. Sono funzionali a questo disegno sia l’enorme distanza anagrafica della premier dalle prime generazioni del Msi, sia la sua vicinanza a certi topoi della storia democristiana: valga per tutti il buon rapporto con la Chiesa cattolica – é stata senza precedenti, di valore storico, la partecipazione di Papa Francesco al G7 presieduto dalla Meloni, nello scorso luglio in Puglia-  sia il rilancio di figure carismatiche come Enrico Mattei – a cui la presidente del Consiglio ha intestato il suo piano per l’Africa – capo partigiano “bianco”, democristiano doc, del tutto estraneo alla storia missina. Vanno aggiunti altri due tasselli, uno esplicito, l’altro tra le righe che avvalora il ragionamento dell’autore. Il primo é l’autogol di Elly Schlein che ha voluto nella tessera del Pd l’effigie di un leader comunista: “perché Berlinguer e non, invece, De Gasperi?“, il quale ultimo é stato così “regalato” al campo avverso. Il secondo si coglie nella prassi meloniana: l’ispirazione propria dello statista trentino di mai umiliare e fare crescere anche i junior partners della propria coalizione. Secondo Bocchino il fiume sotterraneo della destra maggioritaria, così intesa, silente ma ininterrotto e vivo, non ha mai finito di scorrere nelle vene del Paese reale: dopo la partita storica del ‘48, riemergerà nel 1994 col centrodestra guidato da Silvio Berlusconi – con la destra finiana in metamorfosi verso Alleanza nazionale – che fa strame della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto e compagni.

Un’efficace opera di sintesi storico-politica

E poi nel 2022 con la vittoria del destra-centro capeggiato da Giorgia Meloni. Il cui successo – scrive l’autore – “ha un triplo valore storico. Perché conferma che l’Italia, nei momenti decisivi, sceglie la destra; perché, per la prima volta in età repubblicana, diventa presidente del Consiglio un esponente di destra; e perché a diventarlo, per la prima volta in assoluto, è una donna”. Tre fasi che Bocchino cuce in maniera convincente: una ricostruzione unitaria ardita, da un angolo visuale di parte, la quale però spiega con efficacia perché l’Italia profonda è di destra: perché lo è sempre stata; un’ opera di sintesi storico-politica inedita che, a mio parere, è il pregio maggiore del volume. Il secondo “merito”, se così possiamo dire, è quello di cavalcare la tigre, di montarle in groppa, o di usare un’immagine più picaresca, di prendere il toro per le corna. Le pagine del volume non evitano ma affrontano gli spuntoni e le pietre dure lungo il tragitto della destra contemporanea. Lo fanno in modo tignoso, pignolo, rigonfio di dati e cifre; è lo stile visibile di Bocchino nelle frequenti comparsate televisive: fa dire “sì, è lui” che sorprende lo spettatore quando tritura schemi, luoghi comuni, stereotipi, con avversari duri, ma duramente contrastati. Molti di questi coriandoli, li si trova sparsi tra le righe del libro, con sicuro divertissement per occhi non solo “di destra”: lezioni utili, a contrario, a chi prende in mano il libro per leggerlo “da sinistra”, per comprendere la fragilità di certe disamine avversaiere.

Le contraddizioni della sinistra, dal premierato al familismo

Dall‘opposizione contraddittoria al premierato: “nel Pd sono annidati molti leader presidenzialisti…basti pensare a Michele Emiliano in Puglia, Vincenzo De Luca in Campania o Stefano Bonaccini in Emilia Romagna, tutti leader forti e ingombranti, figli del presidenzialismo previsto dalla legge elettorale per le regionali”; al tilt degli oppositori quando lo stesso autore in televisione rintuzza l’accusa “di utilizzare parole di destra e di volerle riportare a galla per stravolgere il lessico politico italiano. Sul banco degli imputati ci sono parole come sovranità, Patria, Nazione, onore, capo, meriti, disciplina, fedeltà. Non c’è dubbio che siano tutte parole di destra”, non accorgendosi gli interlocutori,  che “tutte queste parole si trovano nella Costituzione. Basta leggerla”; fino alla contestazione di “familismo” rivolta a FdI – “l’accanimento contro Arianna Meloni grida vendetta” – che si scontra con gli accostamenti acuminati, ironici, mai rozzi o volgari, con modelli politici ed esistenziali della rive gauche: “ritengo che non ci fosse familismo in casa Miliband e Kennedy, come non ce n’è in casa Pittella, Franceschini-Di Biase o Fratoianni-Piccolotti. Chi fa politica vive contaminandosi, lottando romanticamente per le proprie idee, fa militanza comune, e cresce in simbiosi”. Anche l’accusa frequente di pretesa assenza di una classe dirigente in FdI è smontata, con scioltezza: “Dire che il leader è bravo, ma che chi gli sta attorno è pessimo, è una vecchia tecnica per screditare entrambi…se gli italiani hanno votato a destra, lo hanno fatto anche perché ricordano perfettamente la qualità della classe dirigente che sinistra e Movimento 5 Stelle hanno fatto sorbire alla nazione”, i quali “avevano addirittura fatto un vanto di avere una classe dirigente imperniata sul concetto dell’uno-vale-uno”.

Da Giannini a Travaglio: la deepleadership anti-Meloni

Il tema è affrontato, ex adversa parte, anche con una riflessione non banale: a sinistra, prevale una deep leadership, che surroga quella ufficiale, insufficiente e comunque perdente nel confronto con la personalità della leader-premier: è quella espressa da direttori e prime firme dei giornali di opposizione. Sono cripto-capi politici anti-Giorgia: “Oggi il leader del Pd è Massimo Giannini. È lui che incalza il governo…Il leader del Movimento 5 Stelle è Marco Travaglio, che ha reso «il Fatto quotidiano» il giornale di partito del movimento guidato da Conte”. E’ una osservazione molto pertinente. Trovate nel libro anche un certo revisionismo autocritico, come quello riferito alla fine della Prima Repubblica: “i missini applaudivano ogni arresto e ogni avviso di garanzia. Col tempo la destra italiana ha cambiato idea su Tangentopoli, stagione certo molto propizia, ma durante la quale si esagerò col giustizialismo, in un corto circuito tra il potere della magistratura e la debolezza della politica”. Chi vuole saperne di più, legga di persona. Ne vale la pena.

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