Berlinguer – La grande ambizione: il film di Segre tradisce la storia e delude tutti
L’ultimo film Berlinguer – La grande ambizione di Andrea Segre promette molto e mantiene poco. Sotto la patina nostalgica e l’innegabile fascino dell’archivio, il film lascia uno spazio troppo ristretto per cogliere appieno la figura di Enrico Berlinguer e scontenta tanto gli spettatori quanto chi, come il Manifesto, di Berlinguer ne fa ancora un simbolo. Segre sembra accontentarsi di una narrazione addomesticata, che accarezza l’uomo senza mai affrontare il leader politico, smarrendo così il senso della Storia che voleva raccontare.
Parola al critico Maurizio Cabona
«Il film di Segre, modesto ma non scadente» afferma Maurizio Cabona, scrittore, giornalista e critico cinematografico. «Si occupa essenzialmente dello strappo da Mosca, come antefatto del delitto Moro, che, nello stesso periodo, praticava lo strappo da Washington. Era questa la concreta, fino a pagarla con la vita, “terza via” di Moro (che aveva dietro Paolo VI) e Berlinguer era il suo junior partner, che aveva dietro solo i suoi elettori», aggiunge. «Tuttavia, la pellicola rispecchia al vero gli interni e i vestiti d’epoca», sottolinea Cabona. Il problema dunque non è nella scelta dei dettagli, spesso accurati ma privi di vita, bensì nella mancanza di coraggio nel rappresentare un’epoca di tensioni e contraddizioni. Come osserva Cabona, «il film offre un Berlinguer elegante, aristocratico». Un ritratto fin troppo umano, da far sembrare timido il leader comunista.
Il grande assente: Giorgio Almirante
Il film ignora del tutto la dialettica tra Berlinguer e Almirante, due figure agli antipodi che, tuttavia, compresero l’importanza di un confronto democratico, persino clandestino, in un’Italia lacerata dalle stragi rosse e nere. Gli incontri, quattro o sei non vi è certezza, avvenuti lontano dalle telecamere, non erano solo momenti di tregua: rappresentavano una rara visione comune su come arginare il terrorismo che stava consumando la Repubblica e aveva già portato al sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. In quel lontano, ma non troppo, 1978, il venerdì sera il comunista e il missino si sedevano su un divanetto appartato di Montecitorio, mentre la politica romana si spegneva, per cercare insieme una via d’uscita dalla spirale d’odio che divorava il Paese.
Un gesto, un funerale, nessuna menzione
«Quegli incontri erano il simbolo di una politica che sapeva mettere al primo posto il bene della Repubblica, un esempio di pragmatismo che oggi manca del tutto. Segre si limita a un ritratto incompleto». Non raccontare il confronto con Almirante significa omettere parte della Storia. Non solo, Segre dimentica addirittura la presenza missina ai funerali del leader comunista; un gesto, una presenza e delle parole ben rintracciabili nelle memorie d’archivio eppure non ve n’è traccia nel film. «Un uomo onesto», così Almirante definì il rivale politico dopo aver sfilato davanti al suo feretro, ma anche di questo non si fa menzione. «Si è preferito lasciare spazio a Monica Vitti, Ettore Scola, Marcello Mastroianni», commenta Cabona alle penne del Secolo.
Andreotti e Moro: figuranti?
Non meno problematico è il trattamento delle altre figure chiave del periodo. Giulio Andreotti viene ridotto a una caricatura che sfiora il grottesco, «più vicina alle imitazioni di Oreste Lionello che al vero leader democristiano», evidenzia il critico. «È l’ennesima rappresentazione viscida e comica di Andreotti», spiega Cabona, «che tradisce la sua complessità. Andreotti non era un personaggio simpatico, ma il suo pragmatismo fu essenziale per il compromesso storico».
Il caso Moro viene invece relegato nel finale. «L’assassinio di Moro non è solo un fatto storico», afferma Cabona. «È un golpe riuscito, un punto di non ritorno per la politica italiana». Ma anche qui Segre non coglie le implicazioni profonde di quel dramma e l’impatto successivo che ebbe l’evento tanto sulla politica quanto sulla società.
“Un film per gli antifascisti di oggi, non per i comunisti di ieri”
Nonostante la magistrale interpretazione di Elio Germano, il film soffre di una evidente mancanza di audacia. Segre evita le contraddizioni e le ambiguità, preferendo una narrazione che non sfida lo spettatore. Berlinguer viene trasformato in un’icona intoccabile, lontano anni luce dal leader che si muoveva tra piazze in tumulto e salotti ovattati, cercando di tenere insieme un partito di massa in un’Italia sull’orlo del collasso.
«È un film che parla ai nostalgici di Berlinguer che ancora non erano nati quando Berlinguer morì», sottolinea Cabona, «ma chi ha vissuto quegli anni non si riconoscerà. Non c’è tensione, non c’è conflitto. È un ritratto che non restituisce la profondità di un leader immerso nelle contraddizioni del suo tempo». E aggiunge: «A vedere il film non saranno tanto i comunisti di ieri, per lo più scomparsi, quanto gli antifascisti di oggi. Non è un vanto».