Caso Regeni: “Bendato, torturato e ucciso”. La verità emerge tra gli orrori del carcere egiziano
Unasala d’aula carica di tensione, silenziosa testimone dell’orrore che riaffiora. È qui, nel Tribunale di Roma, che oggi il processo per la morte di Giulio Regeni ha vissuto un momento drammatico: la proiezione di un video documentario di Al Jazeera, nel quale un testimone palestinese ricostruisce, con la freddezza di chi non dimentica, i giorni di prigionia condivisi con il ricercatore friulano rapito e ucciso nel 2016. Le sue parole squarciano il velo sulla brutalità subita da Regeni:«Era ammanettato con le mani dietro la schiena e gli occhi bendati. L’ho rivisto che usciva dall’interrogatorio, sfinito dalla tortura. Era tra due carcerieri che lo portavano a spalla»
Dettagli agghiaccianti: “Lo torturavano con la scossa elettrica”
«Non era nudo, indossava abiti, dei pantaloni scuri e una maglietta bianca», ha continuato l’uomo, «sequestrato, detenuto e poi liberato senza un perché» dai servizi egiziani. «Ho visto un altro detenuto con segni di tortura sulla schiena. I carcerieri insistevano molto con la domanda: “Giulio, dove hai imparato a superare le tecniche per affrontare l’interrogatorio?”. Erano nervosi, lo torturavano usando la scossa elettrica». Nessuna enfasi, solo crudezza nei dettagli di chi, come Regeni, ha vissuto quel buio senza tempo. «Non c’era nessun contatto con il mondo esterno: la sensazione era quella di stare in un sepolcro. Sono stato sequestrato, detenuto e poi liberato senza un perché».
“Una ragnatela tessera intorno a Giulio”
Nel processo a carico del generale Tariq Sabir, dei colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi, e del maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif, emerge quella che i genitori di Giulio Regeni hanno descritto come «una ragnatela tessuta intorno a Giulio, anche dalle persone che gli stavano più vicine». Altra testimonianza significativa è quella di una coinquilina del ricercatore al Cairo, ascoltata in forma protetta per ragioni di sicurezza. Secondo il suo racconto, già a metà dicembre 2015 gli 007 egiziani si erano presentati a casa di Regeni, trovandolo assente. Gli agenti chiesero allora al terzo coinquilino, Mohamed El Sayed, una copia del passaporto di Giulio, giustificando la richiesta come parte di un “controllo di routine” sugli stranieri presenti nella capitale.
El Sayed, pur accettando la richiesta, si sarebbe limitato a scambiare il proprio numero di telefono con uno degli agenti senza avvertire Regeni della visita. Si giustificò dicendogli soltanto che era una prassi per gli stranieri presentare i documenti alla polizia locale. «Forse aveva un sospetto che lui aveva fatto qualcosa che non doveva fare», ha ipotizzato la teste, identificata come “Beta” per tutelarne l’identità. La stessa ha inoltre rivelato di essere stata interrogata per ben tre volte dalle autorità egiziane, aggiungendo ulteriori inquietanti dettagli sul clima di controllo che circondava il ragazzo.
La telefonata tra gli 007 e il coinquilino di Regeni
Gli investigatori del Ros hanno depositato nei giorni scorsi un’informativa contenente l’analisi dei tabulati telefonici, rivelando un dettaglio cruciale: il 26 gennaio 2016, il giorno successivo alla scomparsa di Giulio Regeni, i servizi segreti egiziani avrebbero contattato Mohamed El Sayed, coinquilino del ricercatore. Un collegamento che getta nuove ombre sulla rete di sorveglianza attorno a Giulio.
«Quel 25 gennaio, Giulio uscì di casa intorno alle 19.30», ha raccontato ancora la testimone “Beta”. «Mi disse che doveva andare a una festa di compleanno dall’altra parte della città. Non è più rientrato a casa». Le sue parole rivelano il legame di amicizia che li univa: «Con lui avevo un rapporto di amicizia, un buon rapporto. Andavamo a fare jogging e si mangiava insieme». Secondo l’accusa, quella sera Giulio fu prelevato mentre attendeva alla stazione della metropolitana, un altro tassello che aiuta a scoprire cosa è successo davvero quella notte.
Il dolore della famiglia: la voce della sorella
In aula, la sorella di Giulio, Irene Regeni, ha portato anche la sua voce come persona informata sui fatti. Rievocando, commossa, il momento in cui apprese la verità sulla sorte del fratello: «Ricordo una telefonata di mia madre. «Hanno fatto tanto male a Giulio» le disse. «La parola tortura, però, l’ho sentita per la prima volta al telegiornale».
Irene ha poi tratteggiato un ritratto intimo del fratello, descritto come «un ragazzo normalissimo» e al contempo speciale: «Era un esempio per me, il fratellone che dava consigli». Come tutti i suoi coetanei amava divertirsi, era da sempre appassionato di storia e studiava l’arabo. «Dopo il corso triennale andò per la prima volta in Egitto. Era aperto a conoscere culture diverse, in particolare quella egiziana: era entusiasta di andare lì, era contento per la ricerca sul campo». E seppur così legata a lui – da esserci «sempre in contatto sulle cose importanti: tramite chat e tramite mail», continua chiedersi come abbia a fatto a non accorgersi che qualcosa non andava.