Da Fante a Vance: con Trump ritrova voce la lunga elegia identitaria dell’America profonda

10 Nov 2024 9:45 - di Domenico Di Tullio
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Gli Hillbillies sono gli abitanti delle colline, metafora per le popolazioni rurali, più povere e tradizionaliste, abitanti degli stati agricoli e montani. Questi da sempre sono l’identità e la spina dorsale degli Stati Uniti, dagli Appalachi, al Midwest profondo, alle Montagne Rocciose, luoghi spesso desolati e poveri, che danno operai alle fabbriche e soldati all’esercito, che risuonano di struggenti melodie country e di colpi di fucile nella notte. Sono le terre dei distillatori di whisky clandestino, fatto in casa con grano e orzo, e degli accaniti cacciatori di cervi, dove ogni baracca custodisce almeno un fucile, ma anche della povertà contadina, degli hard working men e della country sadness, del selvaggio ovest che ancora rimane, nei rituali che altri definirebbero mascolinità tossica.

Allo stesso modo, il primato del proletariato nella versione Usa è conteso da un’altra casta, quella operaia, ormai decimata e in declino, della Cintura dell’Acciaio e delle fabbriche di automobili, spesso formata da seconde e terze generazioni di immigrati europei, di Dago, spregiativo del nome Diego utilizzato per identificare gli immigrati italiani e ispanici di qualche ventennio fa, degli est europei, polacchi e russi (ricordate il Cacciatore di Cimino?), che riempivano le acciaierie, le fabbriche di automobili, i cantieri dei grattacieli. Gente ugualmente dura, forgiata da lavori massacranti, che tuttavia trovava proprio nell’etica del lavoro, nel suo rispetto e anche nelle lotte sindacali, il riscatto e la personale chiave al sogno americano, meno dorato di altri, certo, ma ugualmente salvifico.

Per i lunghi mesi della campagna elettorale americana, che tuttavia abituati alle perenni nostre ci è sembrata incredibilmente breve, abbiamo assistito alla glorificazione del politicamente corretto, alla santificazione dei diritti delle minoranze e alla ovvia rappresentazione di un mondo nuovo che avrebbe avuto come eroina una presidente donna, di colore, apertamente schierata con le istanza Lgbtq+, pronta a sequestrare la gran parte dei fucili “d’assalto” circolanti negli Stati dell’unione, perché erano loro a fare le stragi degli studenti delle scuole superiori, non il deserto esistenziale dei ragazzi che le imbracciano contro i loro coetanei.

Allo stesso tempo erano mostrificati, insultati e depressi quei rappresentanti del grande mondo culturale di massa, sia letterari che cinematografici, di quell’idea di America rurale e contadina, il mito dei pionieri su tutto, che non riluceva abbastanza agli occhi dei coloratissimi e spesso sovrappeso sostenitori della attuale poor Kamala. Li chiamavano bifolchi, ignoranti, colli rossi o redneck, per quelle bruciature da mietitura che i braccianti agricoli ostentavano, prima dei trattori con la cabina climatizzata e la musica streaming di adesso, i sostenitori dell’altro, del candidato con il ciuffo, quasi a rinnegare il cuore di un’America, selvaggia, forse, ma certamente fondatrice, l’anima del pioniere innestata su forti radici familiari, sui valori del lavoro e del sacrificio.

È stata una guerra senza esclusione di colpi mediatici, dove cantanti e attori giusti, venivano contrapposti a super cattivi e «stupidi, stupidi, stupidi…» che stavano con il candidato presidente sbagliato e impresentabile, non sufficientemente affine, se non apertamente contrario, alle idiozie del pensiero comune sui social, non abbastanza popolare su Instagram o Tiktok, troppo bianco, troppo reazionario, troppo vecchio boomer. In effetti noi quasi pensavamo, imbibiti di giornalismo d’accatto nostrano, che avrebbe stravinto la politica social, la comunicazione politicamente corretta, il giusto pensiero woke che la Harris sfoggiava dall’alto della sua superiorità tutta East Coast e radical chic, nera ma ricca e borghese, buone scuole ed educazione perfetta, condensata da quella risarella a rictus inquietante utilizzata per non rispondere alle domande che le venivano poste, ai temi scomodi che non interessavano la sua perfetta e artificiale narrazione.

Invece, ci sorprende ma sembra ormai una costante nelle elezioni americane, ha vinto ancora una volta il reale, hanno vinto gli uomini e le donne senza definizioni plurali, diremmo in Italia senza asterischi, quelli con i calli sulle mani piuttosto che colore blu sui capelli. Lo stesso vice presidente di Trump, JD Vance, rappresenta il campione, negativo per i sostenitori dei plurimi generi, di quegli americani hillbilly, dei blue eyed devils, dei montanari endogami, delle cugine che sanno correre più veloci, dei contrabbandieri moonshiners alla luce della luna, dei cafoni con le mani rotte dal lavoro, forti consumatori di carne rossa, superalcolici e musica country, che per andare al college si fanno i turni da Marines, che ce l’hanno fatta, incredibilmente per i nostri standard, ma nel pieno della realizzazione del sogno americano.

Una razza di tenaci sognatori, magari anche dago, come il Bandini o i Molise di John Fante, eroi cocciuti e spesso disperati, armati solo della loro incrollabile determinazione e, magari, di solide radici, proprio come i personaggi delle sceneggiature di Taylor Sheridan, che alla fine vincono perché hanno il coraggio di lottare, sì, ma anche perché sono spesso sostenuti da famiglie sicuramente disfunzionali (come lo è ogni contesto familiare reale, a guardarlo da vicino), ma terribilmente normali e fortemente tradizionali, che si sacrificano insieme per ottenere il risultato.

Vance, per di più, è l’autore del romanzo autobiografico Hillbilly Elegy, scritto durante la Law school a Yale, diventato in italiano “Elegia americana” e trasposto poi in uno splendido film di Ron Howard. Come racconta nel libro, viene da un contesto di poor white trash, una famiglia difficile, i genitori che si separano quasi subito, la madre che soffre una grave dipendenza e abusa di droga e alcool per gran parte della sua vita, ed è cresciuto dai nonni materni, di cui poi prenderà il cognome per onorarne la memoria. Originario dell’Ohio rurale e montano, arriverà alla laurea in legge dopo il servizio nei Marines e la borsa di studio che ciò garantisce, un percorso militare comune a molti giovani americani poveri che devono comunque pagarsi da soli l’istruzione superiore. Il suo romanzo racconta una epopea di famiglia, ma anche il riscatto sociale per chi lo desidera, il sogno americano ancora possibile, che continua ancora ad essere l’aspetto che forse ci affascina di più, a dispetto di tutto, di quella grande patria che, per i loro cittadini, rimangono gli Stati Uniti d’America.

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