Il libro. “Il tempo delle chiavi” di Nicola Rao: la Hazet 36, la morte di Ramelli e l’omertà di chi sapeva
«Hazet 36! Fa-sci-sta-dove-sei?». Un coro che faceva – e fa ancora – accapponare la pelle. Una chiamata senza attenuanti alla violenza ideologica più cieca e brutale. Un grido che non smette di sconcertare e offendere. A intonarlo erano i militanti della sinistra extraparlamentare durante le manifestazioni negli Anni di piombo. Tutti giovanissimi: studenti e studentesse, senza distinzioni di genere, accecati da una furia ideologica alquanto lugubre. Ragazzi, e non solo, convinti che la rivoluzione sociale e culturale in questo Paese dovesse avvenire spappolando letteralmente il cranio ad altri coetanei ma dalle idee opposte.
Tutto vero. Spappolare cervelli con un’arma impropria: brutto a dirsi, talvolta però serve guardare alla realtà nuda e cruda per farsi un’idea. La Hazet 36 è una chiave inglese particolarmente pesante e lunga. Uno strumento da lavoro, cioè: ma efficace anche più di una spranga quando c’era da picchiare per fare male. E non era affatto un caso isolato che qualcuno la facesse ben vedere durante le manifestazioni quasi fosse un potente talismano. Un simbolo infame, tanto quanto le pistole issate al vento come fossero bandiere. Tutte icone di una «politica necrofila» che di vittime ne ha mietute davvero tante.
Il dramma è che molti di quelli che non si vergognavano a gridare certe follie siano poi passati drammaticamente all’azione. Nella maggior parte dei casi, senza mai pagare il prezzo per l’odio dispensato. Tra il 1970 e il 1983 sono stati circa duecento gli episodi simili denunciati ufficialmente alle forze dell’ordine (c’è da ritenere che gli episodi reali siano stati molti di più). Soltanto 100, però, sono stati i militanti dell’ultrasinistra «indentificati, accusati o condannati». I numeri li mette a disposizione il giornalista Nicola Rao, che con Il tempo delle chiavi. L’omicidio Ramelli e la stagione dell’intolleranza (Piemme, 2024) cerca di scavare – attraverso una meticolosa indagine delle fonti – sulle dinamiche di una fase storica raccontata tra troppe reticenze e sviste.
Milano come epicentro di un odio cieco, culla di quelle Brigate Rosse e degli innumerevoli gruppuscoli tanto armati quanto impazziti che però erano accreditati non soltanto nelle fabbriche, nelle scuole e nelle università, ma anche nelle redazioni dei giornali e nei salotti buoni.
I lettori di questo giornale conoscono perfettamente la drammatica vicenda di Sergio Ramelli: le umiliazioni pubbliche, l’aggressione, i colpi al cranio, la lunga agonia e la morte. Non è necessario rievocare nulla, anzi. Fanno però male le polemiche degli ultimi anni circa le commemorazioni a Milano, certamente dettate da strumentalità politiche di scarsissimo valore morale. Ma c’è anche dell’altro, un retrogusto amaro che fa il paio con il clima plumbeo e allo stesso tempo omertoso di quegli anni: una cappa che talvolta riemerge ancora oggi tra mille ipocrisie e segreti indicibili. Per questo si preferisce guardare all’eventuale braccio teso perdendo di vista la realtà storica.
Guido Salvini, magistrato che si è occupato delle indagini per la morte di Ramelli e curatore della postfazione al libro di Rao, confessa qualcosa che lascia sgomenti. «Gli assassini del giovane Ramelli, sicuramente, dopo la sua morte e per molti anni, hanno vissuto gravi crisi di coscienza, ma non si sono mai costituiti all’autorità giudiziaria. Più che timorosi del carcere – scrive – erano prigionieri di una gabbia culturale-ideologica di massa. Ricordiamo che sulle loro agende del 1985 c’erano nomi di professionisti, professori universitari e magistrati noti a Milano. Uno dei responsabili dell’aggressione a Ramelli era, del resto, il fratello del segretario milanese della corrente di estrema sinistra di Magistratura Democratica. Avevano tutti fatto carriera all’interno di una sinistra strutturalmente formata da ‘buoni’, che non poteva essere messa in difficoltà, scaricandosi la coscienza e ammettendo quello che era stato commesso. E questo spiega anche perché, quando le indagini avevano iniziato a imboccare la pista giusta, non più quella della banda di quartiere del collettivo Casoretto, ma il servizio d’ordine di Avanguardia Operaia della facoltà di Medicina, qualche «vocina» in Tribunale aveva consigliato e me e al collega Grigo di ‘lasciar perdere’ quel vecchio episodio».
Si è detto che Il tempo delle chiavi sia un «libro coraggioso che, a distanza di ormai cinquant’anni, indaga e denuncia non solo i colpevoli e i conniventi, ma il grande processo di rimozione che buona parte della società italiana attuò consapevolmente o inconsapevolmente». Ebbene, quel giudizio va sottoscritto integralmente.