L’intervista. Sangiuliano: «La “resurrezione” di Trump ha ribaltato tutto: mainstream, inchieste, star e pregiudizi»

15 Nov 2024 8:00 - di Fernando Massimo Adonia

«L’elezione di Trump è stata una sorpresa, un duro risveglio, solo per ristrette élite molto autoreferenziali e per un sistema dei media che confonde i propri desideri con la realtà». È un giudizio netto, inequivocabile, finanche sereno, quello di Gennaro Sangiuliano. Non fosse altro che da anni – e prima di altri – ha studiato da vicino le vicende politiche americane. Per questo motivo, il risultato del 5 novembre, un po’ se lo aspettava. Da autore di un’importante biografia sull’appena rieletto presidente degli Stati Uniti, sicuramente. Libro che a breve dovrà essere necessariamente aggiornato con la cronistoria di una campagna elettorale insanguinata, ma vincente.

Sangiuliano, soffermiamoci sulla vittoria di Trump: si può dire che anche stavolta giornali, intellettuali e sondaggisti non lo abbiano visto arrivare?

«Da giornalista che sta ai fatti, guardavo i video dei suoi comizi e vedevo grande partecipazione: tanti giovani, donne, afroamericani, ebrei, musulmani. Quello di Trump è un caso unico di resurrezione politica e personale. Nel gennaio del 2021 nessuno avrebbe scommesso un centesimo su di lui, sembrava essere nell’anticamera della prigione. E un arresto effettivamente c’è stato. Con grande caparbietà e senza mai mollare ha ribaltato tutto: il mainstream, le inchieste giudiziarie, le star del cinema, il pregiudizio».

Cosa rappresenta Donald Trump per i cittadini che lo hanno votato?

«L’elezione di Trump mette a nudo ancora una volta la distanza che separa certe élite dal mondo reale, dal senso comune delle cose, è la sconfessione di certi guru che pretendono di giudicare il mondo e dividerlo loro in bene e male, il superamento di una narrazione che divide e decide buoni e cattivi. All’indomani dell’elezione di Trump i mercati hanno reagito positivamente: Dow Jones in su e dollaro in rialzo smentendo nefaste previsioni. Stendo un velo, poi, sulle previsioni fatte in Italia sulle elezioni americane».

Il direttore del Secolo d’Italia, nell’editoriale scritto all’indomani dell’elezione, ha parlato di un voto di contestazione contro il «delirio woke», che ne pensa?

«Ha sicuramente ragione. Alexis de Tocqueville nel meraviglioso libro La democrazia in America descrisse il senso dell’appartenenza alla tradizione della nazione americana. Da almeno un decennio assistiamo, invece, a un’azione invasiva, a tratti violenta: perché la violenza non è solo quella fisica, inscenata da quelli che Alain de Benoist definisce efficacemente “giornalisti poliziotti”, coloro che in nome di verità assolute, mai verificate, si impegnano quotidianamente nella caccia all’eretico, nel mettere all’indice chiunque abbia un pensiero diverso dal loro. La sottocultura woke è diventata un crescendo violento che punta a demolire il valore della storia, di quello che Giambattista Vico chiamerebbe l’idem sentire comune. E questo il senso comune non lo tollera».

Appena eletto, Trump non ha citato il ruolo del Partito repubblicano bensì quello del “movimento” repubblicano. Lei ha studiato anche la figura di Ronald Reagan, il quarantesimo inquilino della Casa Bianca, come interpreta tale distinzione?

«La novità, che lui stesso ha espresso, è la vittoria di un movimento MAGA “Make America Great Again”, che riprende lo slogan che fu di Ronald Reagan, Let’s Make America Great Again. Un movimento fondato su un patto sociale interclassista, che pone al vertice la nazione, e che in nome di questa scardina le vecchie competizioni fra ceti, una novità che non è sfuggita ai più accorti studiosi. Siamo di fronte a un nuovo paradigma che consiste nell’aver abbandonato lo schema del vecchio dualismo democratici-repubblicani per approdare, pur restando nel partito repubblicano, a un proprio movimento dove tutti hanno pari dignità cementati dal patriottismo».

Guardando a quattro anni fa, quella del 5 novembre, per Trump, è certamente una rivincita. Rivincita che lei racconterà nella prossima edizione alla biografia che gli ha dedicato. Quale narrazione ne verrà fuori?

«Quando il 6 gennaio del 2021, in diretta televisiva mondiale, si consumava l’assalto al palazzo del Campidoglio, suscitando un moto d’indignazione globale, nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul futuro politico di Donald J. Trump. Per mesi, se non per un anno intero, Donald J. Trump sarebbe stato il personaggio più discreditato alle cui possibilità di riscatto nessuno dava credito. Eppure, aveva ricevuto oltre 74 milioni di voti».

Anche Silvio Berlusconi, in Italia, ha più volte ottenuto delle rivincite, trova una affinità antropologica tra i due personaggi?

«Berlusconi è stato un grande combattente che più volte ha saputo rialzarsi e respingere tanti attacchi, resistere con caparbietà a una persecuzione. L’altro tratto comune è nel fatto che vengono tutti e due dal mondo dell’impresa, il che conferisce una forte dose di pragmatismo. Poi, entrambe hanno colmato un vuoto politico. Ma Berlusconi era di carattere più misurato e gentile, oltre che impregnato di cultura europea».

Con il ritorno di Trump, cosa cambierà nei rapporti tra Usa e Ue?

«Questo è uno dei grandi temi. Vedremo come si svilupperà. La copertura degli Usa all’Europa, militare e strategica, è un retaggio del Novecento e della Seconda Guerra mondiale. Se l’Europa vuole davvero contare deve fare un’assunzione di responsabilità».

Ritiene plausibile che con Trump presidente si possano raffreddare le tensioni in Ucraina e in Medio Oriente?

«Trump lo ha detto nel primo discorso dopo la vittoria: con i democratici cominciano le guerre, con Biden e con Obama che inventò le cosiddette primavere arabe finite in un bagno di sangue. Lui le guerre vuole chiuderle, per farlo ci vuole realismo».

Lei ha studiato anche XI Jinping, ritiene che i due leader sapranno trovare un punto di equilibrio e a che prezzo?

«La Cina è il vero antagonista dell’Occidente, in termini economici e di valori. Xi Jinping è probabilmente l’uomo più potente del pianeta. In lui si accentra la triade-potere di una delle nazioni più popolate al mondo, oltre un miliardo e trecento milioni di individui. È, allo stesso tempo, presidente della Repubblica Popolare della Cina, segretario del Partito comunista cinese e, soprattutto, capo della Commissione militare, vero scettro del potere. Questa concentrazione fu possibile solo a Mao Zedong che, però, governò un Paese estremamente povero, in preda a permanenti carestie, mentre Xi guida una nuova potenza economica che punta a diventare potenza anche in campo scientifico e tecnologico. Gli Stati Uniti sono ancora la più rilevante potenza economica, militare e tecnologica del mondo, ma per quanto il presidente americano possa contare su una considerevole autonomia decisionale, il potere che esercita è articolato in un quadro di regole democratiche e costituzionali, fatto di bilanciamenti e contrappesi (il celebre check and balance di antica tradizione inglese). Il confronto fra questi due uomini, e il tema non irrilevante di Taiwan, è la grande questione del nostro tempo. Trump è l’uomo adatto a misurarsi con la Cina e il suo leader».

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