Migranti, cade l’ultimo velo: Paesi sicuri? Macché, i giudici puntano solo a demolire l’operazione Albania

12 Nov 2024 14:13 - di Eleonora Guerra
giudici albania

C’è un passaggio rivelatore nella nota con cui la presidente della Sezione Immigrazione del Tribunale Civile di Roma, Luciana Sangiovanni, ha accompagnato il decreto che ha sospeso il fermo dei migranti trasferiti in Albania. Vi si dice, in sintesi, che il punto della questione non sono i rimpatri nei Paesi non sicuri, che restano fattibili, ma le procedure da applicare. Dunque, se l’interpretazione del giuridichese è corretta, emerge che per i giudici la procedura ordinaria di espulsione va bene, quella accelerata o “di frontiera” no. Ed è in questa distinzione che emerge il colpo diretto all’operazione Albania in sé.

Se il punto della questione ora diventano le procedure

Dopo aver argomentato la scelta di ricorrere al parere della Corte di Giustizia dell’Unione Europa, la nota diffusa da Sangiovanni spiega che “deve essere inoltre chiaro che la designazione di Paese di origine sicuro è rilevante solo per l’individuazione delle procedure da applicare; l’esclusione di uno Stato dal novero dei Paesi di origine sicuri non impedisce il rimpatrio e/o l’espulsione della persona migrante la cui domanda di asilo sia stata respinta o che comunque sia priva dei requisiti di legge per restare in Italia. In ragione del rinvio pregiudiziale i giudici non si sono pronunciati sulle richieste di convalida, ma hanno dovuto necessariamente sospendere i relativi giudizi in attesa della decisione della Corte di giustizia. La sospensione dei giudizi – è la conclusione del comunicato – non arresta il decorso del termine di legge di quarantotto ore di efficacia dei trattenimenti disposti dalla Questura”.

Il problema non sono i Paesi non sicuri, ma l’operazione Albania

La nota sembra in contraddizione rispetto ai pronunciamenti precedenti, dove tutto ruotava proprio intorno alla definizione di Paese sicuro, ma se a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, invece, il passaggio appare perfettamente coerente, conferma che il tema non è mai stato davvero quello dei Paesi sicuri e dei diritti umani che porta con sé, ma quello dell’Albania e delle scelte di politiche migratorie del governo. Perché l’Albania prevede una procedura accelerata, mentre le procedure ordinarie sono quelle che fin qui hanno reso difficili le espulsioni, con i loro tempi lunghi e la possibilità per i migranti di circolare liberamente in Italia, con tutto ciò che poi comporta anche in termini di reperibilità quando l’espulsione dovesse essere convalidata.

Quel messaggio dei giudici di Roma alla piazza europea

Ma c’è un altro passaggio rivelatore, che merita di essere letto con attenzione, ed è contenuto nella stessa ordinanza che rimette gli atti alla Cgue. “Non sfuggirà alla Corte la grave crisi istituzionale provocata in Italia dalle prime decisioni dei tribunali di non convalidare provvedimenti di trattenimento nelle procedure di frontiera, di cui si è avuta vasta eco non solo sui media italiani, ma anche su quelli europei e persino extra-europei e l’interesse con cui molti governi europei guardano all’ ‘esperimento’ italiano”. “Le decisioni già adottate da alcuni tribunali italiani – si legge ancora nell’ordinanza – sulle quali a tutt’oggi non è intervenuta alcuna pronuncia di legittimità o di costituzionalità, hanno rivelato aspetti critici di tale ‘esperimento’ e ne hanno minato l’operatività”. Parole che suonano come un tentativo di demolire tout court il “modello Albania”, derubricato a “esperimento” carico di criticità, e che conferiscono un’altra prospettiva al trasferimento in sede europea del contenzioso giuridico italiano. Perché quello che sembra, sempre a pensar male, è che i giudici italiani, non essendo riusciti a far deflette il governo ai propri intenti, ora puntino a un’azione preventiva sulle politiche migratorie degli altri Paesi europei, inopinatamente interessati all'”esperimento” di Roma.

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