Si è spenta la moglie dell’anarchico Pinelli: la sua morte scatenò la vendetta rossa contro Calabresi
Aveva 96 anni, Licia Rognini, moglie dell’anarchico Pinelli. Per oltre mezzo secolo ha cercato verità e giustizia per il marito morto in questura. Suicida, secondo le versioni iniziali. Caduto per un malore, secondo altre versioni. Lanciato da un balcone dal commissario Calabresi, secondo i militanti di Lotta Continua che ne ordinarono l’omicidio. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969 Licia Rognini perse il marito Giuseppe Pinelli detto Pino, ferroviere militante anarchico ritenuto responsabile della strage alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, precipitato dal quarto piano della Questura di Milano e ritenuto suicida. Mentre l’Italia scopriva che la democrazia era sotto attacco, la moglie dell’anarchico “defenestrato” – morta oggi a Milano all’età di 96 anni – iniziò a cercare giustizia e veriità ma non le ha mai ottenute, arrivando a commentare amaramente: “Uno Stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto, uno Stato che non esiste”.
La vedova di Pinelli e l’omicidio del commissario Calabresi
L’assenza del commissario Calabresi dalla stanza al momento della caduta di Pinelli non sarà creduta da parte degli ambienti anarchici e della sinistra e lo stesso verrà fatto segno di una violenta campagna di stampa avente il risultato di isolarlo. Alla campagna di stampa, condotta in maniera assai forte, aderirono molti esponenti della sinistra italiana. Calabresi fu assassinato nel maggio 1972, da aderenti alla sinistra extraparlamentare. Verranno condannati, secondo sentenza definitiva, Leonardo Marino (reo confesso) come autista del commando, Ovidio Bompressi come esecutore del delitto, e come mandanti, per concorso morale, due leader di LC, Giorgio Pietrostefani per aver organizzato l’agguato e Adriano Sofri per averlo approvato dando a Marino (secondo la testimonianza di Marino stesso) il suo assenso alla fine di un comizio.
Lucia Rognini e un pezzo della storia d’Italia
Nata a Senigallia (Ancona) nel 1928, Licia Rognini arrivò a Milano a due anni, figlia di una sarta a domicilio e di un falegname anarchico che venne assunto alla Pirelli come operaio. Mandata a Roma dagli zii nel 1943 quando Milano è bombardata, vi tornerà dopo la Liberazione. Per qualche anno da giovane fu iscritta al Partito comunista italiano, ma aveva un carattere troppo indipendente e lo lasciò presto. Era curiosa, in cerca di nuovi modelli ed esperienze e con questo spirito si iscrisse a un corso di esperanto, al Circolo filologico milanese. Qui conobbe quello che diventerà suo marito nel 1955, Giuseppe Pinelli, un giovane anarchico pieno di entusiasmo e ideali. L’esperanto è la lingua universale che li accomunava in un ideale di pace e uguaglianza tra gli uomini; una lingua che lui già conosceva e voleva insegnare e che lei voleva imparare.
Dal loro matrimonio nacquero due figlie, Silvia e Claudia, nel 1960 e nel ’61. Licia cominciò a lavorare a casa, che divenne un porto di mare, aperta a tutti, frequentata da studenti, che si facevano battere a macchina da lei le tesi di laurea, da compagni anarchici e non, da assistenti universitari, da molti cattolici. Negli anni tra il 1968 e il 1969 l’impegno politico di Pino Pinelli nel movimento anarchico e nel sindacato crebbe sempre di più: era molto attivo, faceva da tramite tra i vecchi anarchici e i giovani della contestazione e non esitava a esporsi in prima persona. Licia non lo seguì in questo suo impegno: lavorava in casa, cresceva le figlie, voleva il suo compagno più presente.
Le accuse di aver messo la bomba a piazza Fontana
Il 12 dicembre 1969 scoppiò la bomba nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocando 17 morti e 88 feriti. Fu il primo terribile atto della strategia della tensione: l’Italia intera rimase attonita, sgomenta, impaurita. Partì immediatamente la caccia agli anarchici e anche Pino Pinelli venne fermato dalla polizia, invitato dal commissario Luigi Calabresi a seguirlo in questura con il suo motorino. “Gli faranno prendere un bello ‘spaghetto’ e poi lo faranno tornare a casa” disse Licia alle sue figlie che le chiedevano perché il papà non tornasse a casa.
Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre Pinelli muore, precipitando, durante un interrogatorio da una finestra della questura di Milano. Il suo stato di fermo, durato tre giorni, si era protratto ben oltre i termini legali. La famiglia venne avvisata da alcuni giornalisti; nella notte arrivarono a casa Pinelli Camilla Cederna, Corrado Stajano, Giampaolo Pansa; e quando Licia chiamò in questura per sapere perché non era stata avvisata si sentì rispondere: “non avevamo tempo”. Al dolore immenso per quella morte orrenda, si aggiunsero le dichiarazioni che vennero immediatamente riversate su Pinelli, accusato dal questore di Milano di essersi suicidato a dimostrazione della sua colpevolezza. I giornali parlarono di “alibi caduto”, di slancio felino al grido “è la fine dell’anarchia”. Licia, con pochi amici, trovò la forza e il coraggio di ribellarsi alle verità ufficiali e con dignità iniziò la sua battaglia per sapere non solo la verità sulla morte del marito, ma per difenderne la memoria così crudelmente distorta. Da subito, cominciò a conservare tutti gli articoli, tutte le parole e tutte le bugie gettate sulla memoria di Pinelli.
Dovette cambiare scuola alle bambine, che all’epoca hanno 8 e 9 anni; dovette cambiare casa e trovò lavoro come segretaria presso l’Università Statale di Milano.
Le denunce del commissario Calabresi
Il 27 dicembre 1969 Licia Rognini denunciò, insieme alla mamma del marito, Rosa Malacarne, il questore di Milano Marcello Guida per diffamazione; il 24 giugno 1971 denunciò il commissario Luigi Calabresi e tutti i presenti in questura per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità. L’istruttoria venne affidata al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio che nel 1977 l’archivierà escludendo sia il suicidio che l’omicidio motivando la morte come un “malore attivo”, prosciogliendo tutti gli indiziati. Nel 1978 il tribunale di Milano non accolse la richiesta di Licia che chiedeva il risarcimento danni dal Ministero degli Interni per la morte del marito e la condanna a pagare le spese processuali. La vedova Pinelli non ricorse in appello dichiarando la sua sfiducia nello Stato. Nel 1982 Licia sentì il bisogno di raccontare quanto aveva vissuto e dal lungo dialogo intervista con il giornalista Piero Scaramucci nacque il libro “Una storia quasi soltanto mia”, ristampato nel 2009 da Feltrinelli.
A 40 anni da quel 16 dicembre, Licia Rognini venne invitata al Quirinale e il 9 maggio 2009, alla presenza dei familiari delle vittime, potè sentire le parole che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, pronunciò in occasione della Giornata della Memoria, e che parlarono di Giuseppe Pinelli come la 18° vittima di Piazza Fontana. Le parti offese di quella storia, Licia Rognini e Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, si incontrarono per la prima volta, riunite dalla verità storica condivisa, alla quale non corrisponde alcuna verità né condanna giudiziale.